In contemporanea con la 73a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, nelle sale italiane ha fatto (finalmente) capolino Il Clan del regista argentino Pablo Trapero, presentato proprio un anno fa in laguna, dove si è portato a casa un premio importante come il Leone d’Argento per la miglior Regia.
La storia vera
La vicenda de Il Clan è una storia vera, di quelle che possiedono un fascino tutto particolare virato al nero di uno dei fatti di cronaca più efferrati e noti nell’Argentina del secolo scorso, equiparabile per certi versi a quella che da noi è stata la vicenda de La Uno bianca. Durante gli anni ‘80, mentre il dittatore Galtieri sta per essere deposto favorendo l’elezione democratica di Raúl Ricardo Alfonsín, una famiglia, quella dei Puccio, continua a mettere in atto numerosi rapimenti a scopo di estorsione, colpendo soprattutto le famiglie dei sobborghi ricchi di Buenos Aires. A capo di questa organizzazione criminale “a gestione familiare” c’è il “pater familias” Arquímedes Puccio, dipendente dei servizi di sicurezza governativi che – grazie a una rete di coperture politiche – è sempre riuscito ad agire indisturbato ed impunito.
La scacchiera di Trapero
C’è una scacchiera di bianchi e neri sulla quale Pablo Trapero muove abilmente le sue pedine. Quella della famiglia della porta accanto, borghese ed insospettabile dietro alla quale si cela una banda di spietati rapitori ed assassini; quella di un contrasto familiare (e generazionale) tra il padre/boss Arquímedes (interpretato da un bravissimo e glaciale Guillermo Francella) e il figlio – nonché promessa del Rugby – Aleandro (Peter Lanzani); quella infine di una società nella quale l’impianto dittatoriale dei generali è ormai al tramonto e lo sbocco democratico si muove per inerzia, ostacolato dalle vecchie strutture del potere autoritario.
Fra Scorsese e Larrain
Il conflitto dunque è etico, generazionale e politico ma Trapero lo ripercorre con quel distacco necessario, evitando soluzioni sentimentali o militanti, ma preferendo osservare a distanza, un po’ affascinato e un po’ spaventato, le terribili vicende della famiglia Puccio. Il tutto attingendo a piene mani da cinematografie di culto: c’è dello Scorsese nei movimenti di macchina e un po’ Tarantino in alcuni dialoghi serrati. Ma c’è anche il cileno Pablo Larrain in quell’equidistanza (quasi ambigua) dai fatti narrati e dal tentativo (ben riuscito) di contaminare privato e pubblico.
L’assimilazione del male
E poi c’è uno strato di leggerezza che accompagna tutto il film, soprattutto con la scelta di utilizzare in colonna sonora delle hits anni’80 durante le scene più crude e violente, come se Trapero volesse intrattenerci all’atrocità restituendola come metodica ed abitudinaria. Ma il suo non è solo un modo per anestetizzarci al peggio: l’obiettivo è piuttosto proiettare in questo “orrore quotidiano” sia la doppia vita della famiglia Puccio sia la “normalità del male” della dittatura argentina. È un gioco di specchi in cui l’autoritarismo di Arquimedes sulla sua famiglia sembra rimandare agli abusi della dittatura militare dei generali. E allo stesso modo le vittime rapite e uccise dai Puccio non sono che un eco dell’enorme debito di sangue pagato da migliaia di desaparecidos argentini. Il male si assimila insomma, e lentamente ci si abitua ad esso, non importa che a generarlo sia un’istituzione statale o piuttosto la più rassicurante struttura sociale della famiglia naturale.
Il Clan in definitiva è la conferma come il cinema sudamericano abbia raggiunto un livello di maturità senza precedenti negli ultimi anni, capace di emergere anche come sguardo lucido e critico nell’osservare (e raccontare) le proprie vicende storiche. Il film di Trapero in questo senso è forse l’esempio più mainstream, fresco e dinamico di questa nuova cinematografia.