Netflix, come ormai abbiamo tutti assodato, quando intraprende un nuovo progetto non lascia nulla al caso ma questa volta non ha veramente badato a spese: la bellezza di 120 milioni di dollari (una media di 10 milioni ad episodio) è costata The Get Down, la serie creata dal regista australiano Baz Luhrmann (Romeo + Juliet, Moulin Rouge!, Il Grande Gastby) ambientata nel Bronx degli anni ‘70, periodo in cui emergerà un movimento culturale, quello dell’hip hop, che avrà una grande influenza nei decenni a seguire.
The Get Down, come buona parte della produzione cinematografica di Luhrmann, è un ibrido tra melò e musical.
Zeke (Justice Smith) è un brillante ragazzo amante della poesia e della musica che ha una cotta per Mylene (Herizen Guardiola), una portoricana che vuole sfondare nel mondo della disco music ma ha la strada sbarrata dal padre predicatore Ramon (Giancarlo Esposito), contrario alla disco in quanto musica del diavolo; la storia d’amore e la loro parabola artistica in ascesa andranno avanti, nel corso degli episodi, in maniera indissolubile, con Mylene che, grazie all’aiuto dello zio Francisco (Jimmy Smits), riuscirà ad incidere il suo primo singolo mentre Zeke, con la sua combriccola di amici capitanata da Shaolin Fantastic (Shameik Moore), si farà conoscere nell’ambiente della musica underground newyorkese.
La serie è la perfetta antitesi del prodotto HBO Vinyl.
Ad uno sguardo superficiale, i due show possono sembrare molto simili (produzioni mastodontiche, ambientazione Seventies, identica natura musical) ma il loro approccio è completamente differente: se la narrazione di Vinyl è più orientata alla costruzione certosina del contesto e dei personaggi (in perfetto stile HBO, alla Boardwalk Empire e The Sopranos), l’impostazione di The Get Down è molto più lineare e pop; a Luhrmann e soci non interessa né approfondire il background dei suoi characters né soffermarsi sul difficile ambiente del South Bronx (che passa qui in secondo piano) ma raccontare la più classica delle “wannabe story”, dove c’è un obiettivo da perseguire a tutti i costi e il motore che porterà a ciò, oltre alle ambizioni, sono l’amore e l’amicizia. La messa in scena e la scenografia, è inutile dirlo, è in perfetto stile Luhrmann, esagerata e pomposa, il cui apice è il pilot di un’ora e mezza diretto dallo stesso regista australiano; i puristi qui potrebbero storcere il naso sulla rappresentazione troppo patinata e hollywoodiana (nel corso degli episodi non emergerà davvero la sporcizia, il degrado e la povertà del quartiere più malfamato di New York) ma è indubbio che The Get Down sia stato concepito per piacere ad un pubblico generalista ed ecco perchè lo show Netflix ha vinto la sfida del pubblico e Vinyl no (nonostante la serie di Winter e Scorsese sia nettamente migliore). A prescindere da questo, la serie ha comunque una sua identità ben precisa e riconoscibile ed è supportata da un cast che è un mix equilibrato tra giovani promesse sconosciute e vecchie certezze, dove spicca, tra tutti, Jimmy Smits con il suo personaggio, un boss politico locale che si trova nella zona grigia tra corruzione e buone intenzioni nel cambiare in meglio la situazione della sua gente.
Arrivata a metà della sua programmazione (Netflix rilascerà le restanti sei puntate della prima stagione nel 2017), il bilancio di questa midseason di The Get Down è positivo: vedremo se riuscirà a confermarsi nella seconda tranche del prossimo anno.