Nel 2010, milioni di telespettatori hanno seguito per 87 giorni le dinamiche di quello che resta il più grave disastro ambientale nella nostra storia: l’incidente alla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, che ha comportato un immenso sversamento di idrocarburi nelle acque del Golfo del Messico e conseguentemente un incendio indomabile che ha distrutto la struttura d’estrazione facendola inabissare.
Il produttore e protagonista Mark Wahlberg, ha deciso ora di portare questa storia sullo schermo, con il titolo di Deepwater – Inferno Sull’Oceano.
La sfida di Wahlberg, degli sceneggiatori M.M. Carnahan e Matthew Sand e del regista Peter Berg (dietro la macchina da presa, tra l’altro, per il pilot di The Leftovers) era raccogliere testimonianze e ricostruire la realtà di questo drammatico segmento di storia. Le immagini del disastro erano certamente note al grande pubblico; quello che mancava era un nuovo punto di vista: non più l’impatto ambientale, ma l’impatto sulle vite umane.
Per questo Deepwater Horizon (il titolo originale) è scritto e diretto come “un emozionante thriller d’avventura” e “una storia sul coraggio”.
Ma non basta: un nodo fondamentale era onorare la memoria delle vittime, il coraggio dei superstiti, affermando la verità su quel disastro. Per questo, la storia non poteva che essere fondata sull’esperienza diretta di un uomo – il capo tecnico elettronico della Transocean, Mike Williams – e sui suoi racconti dettagliati, insieme a quelli degli altri 126 dipendenti a bordo della Deepwater Horizon.
Il risultato è un film dalla natura estremamente classica, che reinterpreta una struttura narrativa antica come il mondo: l’incedere fatale di una tragedia annunciata.
Il film inizia e si sveglia con il protagonista Mark Wahlberg, ovvero Mike Williams, al fianco della giovane moglie, interpretata da Kate Hudson. La routine del risveglio, della colazione con la figlioletta, introduce l’angoscia sottile di Mike Williams, e poi quella dei suoi vari amici e colleghi. Sono tutti in partenza, pronti a raggiungere la Deepwater nel bel mezzo dell’oceano, al largo delle coste della Louisiana. Sin dal principio, è chiaro come le scelte spregiudicate della multinazionale Transocean mettano costantemente a rischio la vita di moltissime persone.
In Deepwater la sorpresa è come, a fronte di una struttura narrativa che ricalca il thriller e il dramma più classico, il linguaggio visivo si sviluppi invece in modo radicale, estremo, particolarmente coraggioso, sulla falsariga di un cinema sperimentale e d’avanguardia com’era quello del Dogme 95.
Non tutti forse ricordano il manifesto Dogme 95, che nella seconda metà degli anni ’90 ha portato Lars Von Trier sotto le luci della ribalta. Un dichiarazione d’intenti, un decalogo e un “Voto di castità”, capace di spaccare istantamente in due la critica internazionale. Sarà lo stesso Von Trier a sperimentare ma anche tradire continuamente i presupposti del suo Dogme, in primis l’utilizzo della pellicola 35 millimetri. Ma saranno proprio le sue intuizioni sulla “rivoluzione digitale”, ancora solo agli albori, che nel 2016 restano i presupposti di uno stile, un’estetica, chiaramente riconoscibile anche in un film come Deepwater.Quel che ci interessa è come il suo primo esperimento con quella che avrebbe definito “camera d’ascolto”, Le onde del destino (Breaking the Waves), Palma d’oro al Festival di Cannes 1996, fosse in parte ambientato proprio su una piattaforma petrolifera. Potrebbe sembrare un dettaglio marginale, se non fosse che, proprio come in Le onde del destino, in Deepwater Berg sceglie di usare estensivamente la steadycam, o quella che una volta si chiamava “macchina a spalla”, per realizzare un autentico corpo a corpo tra l’attore e la macchina da presa.
Il risultato è un’esperienza di realismo tanto estremo da diventare quasi iperrealistica.
Assistere a Deepwater, in questo senso, significa incontrare i dettagli ravvicinati dei complessi macchinari che scandiscono la vita e il lavoro su una piattaforma petrolifera. Significa vivere l’esperienza dell’esplosione, la vera storia di Mike Williams, dei suoi colleghi: tutte le fasi dell’emergenza, poi del disastro, come fossero un’esperienza fisica. In altre parole: come fossimo presenti sulla Deepwater Horizon, il giorno 20 Aprile dell’anno 2010.
Tra i molti pregi del film, un cast di primissimo livello che incarna perfettamente le caratteristiche dei personaggi.
Si può quasi dire ‘un triangolo perfetto’: Mark Wahlberg, Kurt Russell, John Malkovich. Tanto per chiarire, non parliamo banalmente di un’ottima intuizione o di un casting riuscito: forse è oltre l’umana immaginazione pensare a tre attori più adatti a sostenere il peso di un film visivamente tanto complesso, sostenerlo con la forza dei primissimi piani, dei volti, dei dialoghi, perfino delle rarissime pause in uno scontro senza tregua. Insieme al realismo della piattaforma, dell’oceano e del fuoco, la successione dei dialoghi, il loro confronto incessante, sempre più serrato, fino l’inevitabile esplosione: è questa la vera colonna portante, e insieme l’eccezionalità di Deepwater, la ragione per cui vale assolutamente la pena di vedere il film su un grande schermo.
Mark Wahlberg è il fulcro dell’interazione tra i co-protagonisti, collocandosi come punto intermedio tra le dinamiche dei personaggi di Russell e Malkovich. Non c’è molto da dire sul suo Mike Williams se non che è il classico ‘brav’uomo’, ma vestire con carisma i panni di un ‘eroe per caso’ è un compito tutt’altro che scontato – e Wahlberg si è sempre dimostrato una garanzia in tal senso. Dopo l’esordio come modello – ma anche come rapper di discreto successo con lo pseudonimo di Marky Mark – e una pellicola di scarsissimo rilievo nel 1994 (Mezzo professore tra i Marines), l’attore si guadagna da subito un ruolo di primo piano in Boogie Nights di Paul Thomas Anderson, in cui incarna Dirk Diggler, alter ego di John Holmes, primo esempio di divismo nel mondo del porno. Da quella straordinaria interpretazione la carriera di Wahlberg – che ‘divo’ in senso stretto non è mai diventato – è comunque stata un susseguirsi di successi che ne hanno fatto una solida scelta per i produttori. E come non bastasse, Wahlberg ha poi dimostrato di sapersi distinguere proprio nell’area finanziaria, collezionando come produttore i più svariati premi per serie del calibro di Entourage, I padroni della notte, In Treatment e Boardwalk Empire.
Nessuno più adatto di lui quindi per interagire con chi invece, almeno nei copioni, un uomo normale non lo è mai stato. Parliamo ovviamente di John Malkovich, che qui incarna la multinazionale responsabile di un disastro ambientale ma che, nella parte del cattivo, è sempre stato più che a suo agio; basti pensare a Le relazioni pericolose, Ritratto di Signora, La maschera di ferro, Il gioco di Ripley.
Subdolo, inamovibile, sempre disposto a “mentire sapendo di mentire”, il suo personaggio si muove costantemente sulla linea della mistificazione, del ricatto. Fin dalle sue prime inquadrature, Malcovich/Vidrine si presenta in modo molto chiaro. L’azienda è fatta di un milione di piccole parti, a lui spetta il ruolo ingrato di supervisore. Non può permettere che una soltanto, tra queste parti, queste persone, vada nella direzione sbagliata. Per questo per lui ogni mezzo è lecito: manipolazione, minacce dirette o tra le righe. E quando si manifesta la reale entità dei suoi sbagli, suoi e della multinazionale che rappresenta, il film diventa una sorta di Inferno sull’Oceano. Ma cosa avreste fatto voi nei suoi panni? Essere John Malkovich non è facile, ne sanno qualcosa Charlie Kaufman e Spike Jonze, che nel 1999 hanno provato a immaginarlo.
E poi c’è Kurt Russell, che interpreta Jimmy Harrell ed è il vero antagonista diretto di Malkovich. Il caso vuole che la battuta preferita da Mark Wahlberg/Dirk Diggler in Boogie Nights, sia proprio una citazione di Kurt Russell in Grosso guaio a Chinatown:
“Sei pronto?”
“Sono nato pronto.”
Per combattere il villain per antonomasia ci vuole qualcuno che incarni l’archetipo dell’eroe ‘duro e puro’. Sembrerà strano, ma Kurt Russell non ha sempre interpretato ‘uomini tutti d’un pezzo’… Almeno fino agli anni ’60 – e fino alla fine del suo contratto con la Disney. Dopo il suo fallito tentativo di ottenere la parte di Han Solo nel ’77 – sappiamo poi com’è andata – è stato il fortunatissimo incontro con John Carpenter a trasformare il suo viso squadrato in un’icona, con un sodalizio artistico che ha segnato gli anni ’80 e più ampiamente il genere fanta-action (1997: Fuga da New York, La cosa, Grosso guaio a Chinatown). E poi l’incontro con Tarantino (Death Proof, The Hateful Eight).
Oggi Kurt Russell non sarà più un giovane sex symbol, l’eroe bello e buono dalle capacità quasi soprannaturali, ma la parte che ricopre in Deepwater ricalca i valori di ‘eroismo’ e decisionismo che lo hanno reso celebre: è suo il ruolo di un uomo dabbene, segnato dalla vita e dalla fatica ma comunque fermo, inamovibile nel battersi fino all’ultimo per difendere la verità, le sue scelte, la salvezza dei suoi colleghi e amici.
Dal 6 Ottobre Deepwater: Inferno sull’Oceano arriva nelle sale italiane, distribuito in oltre 400 copie.
Nella conferenza stampa di Roma, presso l’Hotel de Russie, Mark Wahlberg e il produttore Lorenzo di Bonaventura – visibilmente fieri dei aver superato una notevolissima serie di sfide tecniche e produttive – hanno sottolineato soprattutto la necessità di raccontare “una storia vera”.
“È estremamente complicato realizzare un film come questo” sottolinea di Bonaventura. “Credo sia il film più difficile in assoluto al quale abbia partecipato. Prima di tutto a livello logistico, perché abbiamo dovuto costruire una piattaforma di 900.000 kg di acciaio. In secondo luogo per la responsabilità che avevamo di raccontare una storia vera, con personaggi realmente esistiti e gente scomparsa. Questo tipo di pressione ha rappresentato per noi una guida. Una linea di pensiero che ci ha permesso di trovare il giusto equilibrio tra la parte spettacolare e quella emozionale.”