L’11° Festa del Cinema di Roma, la seconda sotto la direzione di Antonio Monda, ha avuto il via con Moonlight di Barry Jenkins, un dramma lento e intenso sulla discriminazione e sull’autoaffermazione: una scelta decisamente inconsueta per far partire un festival (figuriamoci una festa). Eppure la decisione di aprire la selezione ufficiale con questo film è tutt’altro che casuale: Moonlight infatti è una pellicola che meriterebbe quantomeno la presenza ai prossimi Oscar e che quindi per Monda potrebbe essere una scommessa simile a quelle fatte con grandissimo successo negli ultimi anni da Barbera a Venezia. Un passo per avvicinare i festival italiani a Hollywood in un momento in cui sembra che il resto d’Europa stia privilegiando un’autorialità autoreferenziale a quel cinema che, con qualche snobismo in meno, riesce però a incidere sull’immaginario degli spettatori in sala.
Moonlight è una storia fortemente radicata nella comunità nera e segue tre diversi momenti della vita del protagonista: quando tutti lo soprannominano Little ed è un bambino introverso e solo che trova in uno sconosciuto gentile una figura paterna; quando si fa chiamare col suo nome, Chiron, ed è un adolescente che prova ad accettare la propria omosessualità e infine, col soprannome di Black, è un adulto che ostenta una forza e una prepotenza che non gli appartengono.
Una sorta di Boyhood incentrato sui temi dell’individualità e delle minoranze multiple.
Il tema affrontato è molto sentito in America ma ancora piuttosto inesplorato in Italia, ed è quello delle minoranze multiple, ovvero della compresenza in uno stesso soggetto di più di un fattore di discriminazione: in questo caso l’apparenza all’etnia afroamericana e l’omosessualità. Una condizione che porta a subire atteggiamenti discriminatori anche all’interno della propria comunità di appartenenza e che nella pellicola diventa pretesto per ragionare sulla fragilità dell’individualità al cospetto del contesto sociale. Il vero fulcro dello script infatti non è tanto la sessualità del protagonista, quanto la difficoltà dell’essere fedeli a se stessi, alle proprie aspirazioni e al proprio io profondo, nonché la facilità con cui la società può portarci in direzioni lontane da quelle che seguiremmo in un mondo ideale.
Uno sguardo registico non invasivo per una realizzazione impeccabile.
Moonlight ha un linguaggio visivo che rispecchia il carattere del protagonista: non si concede, si lascia osservare ma non si muove mai verso l’osservatore, non fa mai il primo passo e se lo fa è per dissimulare. L’incedere della narrazione è molto lento ma la macchina narrativa funziona alla perfezione, e lo sguardo mai esterno di Jenkins, che ci trascina a forza nell’interiorità dei personaggi con una calda macchina a mano e inquadrature sempre ravvicinatissime, non giudica e non prende posizione.
Le emozioni contano più dei sentimenti in questo universo narrativo e, nonostante la sconfortante presenza di una continua violenza fisica e psicologica con cui è bersagliato il protagonista, il peso più importante è quello dell’edificante amore gratuito, che sia di uno sconosciuto, di un amico o di un amante. Jenkins regala scene iconiche e simboliche come quella che nel primo capitolo del film racconta l’incontro di Little con l’oceano: una sorta di battesimo e di rinascita che un meraviglioso sguardo a pelo d’acqua ci regala in tutta la sua intensità.
Anche il comparto sonoro è però di grande efficacia e mentre vi è un uso analogico del volume in più di una scena, la colonna sonora ci avvince con atmosfere alla Malick andando nella direzione parallela ma opposta a quell’Hamilton – il musical di Lin-Manuel Miranda – che ha sconvolto Broadway diventando un vero caso in America: qui anziché trovare un commento musicale hip hop su un contesto d’epoca, troviamo la musica classica in una storia ambientata nel ghetto.
Il cast di grandissimo talento viene dalle migliori serie TV.
Uno dei più straordinari meriti del film è quello di presentare interpreti di indiscutibile talento che riescono a portare in scena una complessità fuori del comune con una naturalezza disarmante. Le interpretazioni sono tutte più che degne di nota ma quelle che brillano di più hanno tutte a che fare con la serialità televisiva: Trevante Rhodes (Westworld) riesce in una missione impossibile di armonizzazione degli opposti, André Holland (The Knick) è inequivocabile pur senza mai essere gigionesco e, soprattutto, Mahersala Ali (House of Cards, Luke Cage) brilla di un incontenibile talento che ci auguriamo gli garantisca la statuetta come miglior attore non protagonista agli Academy.
In conclusione Moonlight è una pellicola dal sapore indipendente che con grande merito dello script riesce a non scadere mai nella banalità e nella retorica, che invece dietro a tematiche tanto sensibili sono sempre in agguato (quando non cavalcate apertamente). Poco meno di due ore per lasciarci con una domanda: quel che siamo oggi cancella quel che siamo stati?