È sempre difficile parlare delle pellicole di un regista che ha segnato la storia del cinema. O meglio, è difficile se il tempo dei capolavori è ormai un ricordo lontano e la pellicola che ci si trova davanti è un trionfo di insipide banalità. È lecito esercitare una certa indulgenza in nome dei bei tempi andati? O forse, proprio perché conosciamo le potenzialità dell’artista, possiamo essere più severi nel giudicare un lavoro senza il minimo guizzo creativo?
Come avrete capito è proprio questo il dilemma che sorge all’uscita dalla sala dopo la proiezione di Snowden, il nuovo film di Oliver Stone (Platoon, Nato il 4 luglio, Assassini Nati – Natural Born Killers, JFK – un caso ancora aperto). A dispetto delle tematiche trattate, scioccanti in sé, il (debole) sapore che resta in bocca è quello di un lavoro qualunquista che va col pilota automatico, e che dietro la macchina da presa avrebbe potuto avere un mestierante qualunque senza che la differenza fosse visibile.
UNA VICENDA SCIOCCANTE CHE PERDE OGNI APPEAL NARRATIVO
La storia su cui è costruito Snowden è quella che tutti abbiamo conosciuto nel 2013 dai giornali e su cui si è a lungo dibattuto: Edward Snowden, genio informatico dietro alcuni dei più importanti progetti segreti del governo USA, deve chiedere asilo politico in Russia dopo aver avuto una ‘crisi di coscienza’ e aver deciso di infrangere il vincolo professionale di segretezza, consegnando alla stampa numerosi documenti che dimostrano come la National Security Agency spii le comunicazioni private dei cittadini americani e non, senza alcuna restrizione e violando ogni legge. Un Grande Fratello di Orwelliana memoria che va ben oltre le esigenze di sicurezza nazionale e i cui fini sono tutt’altro che limpidi.
Una vicenda sconvolgente, certo, di cui però si è per l’appunto già molto parlato e rispetto alla quale il film, un bio-pic d’inchiesta che ripropone le tematiche di denuncia sociale care a Stone senza presentarne il consueto – tutt’altro che acritico – patriottismo, non aggiunge molto. Sembra quasi che Stone, che firma anche lo script insieme a Kieran Fitzgerald ispirandosi ai libri The Snowden Files e Time Of The Octopus, si scordi che quel che sta realizzando non è un documentario ma un film. Mentre infatti propone sullo schermo una meticolosissima e soporifera serie di progetti governativi, privilegia i dettagli a danno della sostanza senza riuscire a mettere in scena alcuna drammaturgia degna di questo nome. Calcare la mano sul rapporto di coppia di Edward Snowden non basta a trascinarci nella storia e la straordinaria opportunità offerta dalla pellicola, cioè quella di creare un’empatia con lo spettatore al fine di compensare l’aridità del resoconto para-giornalistico, non è neanche lontanamente sfruttata. Eppure il tormento interiore di un uomo che diventa complice attivo di uno dei più gravi episodi nella storia della democrazia moderna e l’ebrezza del rendersi protagonista di uno dei più coraggiosi gesti di denuncia politica di cui si abbia memoria sarebbero gli ingredienti perfetti per un film di grande impatto emotivo. Per molti versi verrebbe naturale paragonare questa fatica di Stone a quello Spotlight che si è portato a casa – non si sa bene come – un Oscar, ma mentre il film Tom McCarthy riusciva sia a emozionare che ad appassionare all’aspetto dell’inchiesta giornalistica, qui non c’è un passo in nessuna delle due direzioni. Se anche infatti volessimo limitarci ad analizzare l’aspetto spy del plot, non c’è mai la sensazione di un puzzle che si compone davanti agli occhi dello spettatore, di un ‘gioco di prestigio’ che rivela quel che prima era nascosto in piena vista, ma gli eventi si susseguono meccanicamente e linearmente.
DELLE PECCHE IMPERDONABILI LASCIANO A BOCCA APERTA
Joseph Gordon-Levitt è perfetto nei panni del programmatore e i giornalisti (in particolare Melissa Leo) risultano convincenti seppur bidimensionali. Il talento del cast però non basta a contrastare alcune scelte che affossano definitivamente Snowden, quali ad esempio la colonna sonora, lo ‘spiegone’ in computer grafica e l’inserimento del vero Snowden nelle scene finali: tre elementi eufemisticamente agghiaccianti.
Il commento musicale è quanto di più insipido e convenzionale si possa immaginare, e più che sforzarsi di inventare qualcosa Craig Armstrong (su indicazione di Stone) si affida alle più abusate temp music rendendo la soundtrack indistinguibile da quelle di mille altri prodotti analoghi. Ogni nota, suono o strumento è lì dove vi aspettereste di trovarlo. La noia più indigeribile.
Seguendo poi il solco dei peggiori film anni ’90, verso i due terzi della pellicola il regista sceglie – cambiando inspiegabilmente registro narrativo – di fare un bel riepilogo per gli spettatori che non avessero capito quanto fin qui accaduto (o che si fossero addormentati nel mentre) e si affida a una computer grafica che dovrebbe rappresentare internet e la rete di comunicazione monitorata dalla NSA ma che strappa quasi una risata, per quanto sembra presa tal quale da un qualche servizio tra quelli che vendono video pronti in stock.
A ‘sparare sulla Croce Rossa’ poi c’è la scelta incommensurabilmente kitsch di sostituire, solo nel finale, Gordon-Levitt con il vero Snowden, che ‘posa’ e ‘recita’ se stesso, aggirandosi con aria meditativa illuminato da quei riflettori che anziché creare un collegamento con la realtà denunciano l’indigeribile artificiosità del momento. E così l’agiografia firmata Stone giunge a compimento e il santino del ‘programmatore ribelle’ è servito, stucchevole come pochi.
Il film non è terribile, intendiamoci, ma è il classico filmetto di denuncia che scorre dimenticabilissimo e che sembra uno tra i tanti sfornati in serie. Stone in conferenza stampa ha attribuito l’accoglienza tiepida ricevuta negli Stati Uniti all’ignoranza degli Americani e al loro desiderio di negare la realtà. Forse però, caro Stone, il problema non è il Sistema brutto e cattivo, ma semplicemente la mediocrità di un lavoro realizzato con la mano sinistra. Peccato, perché nella scena in cui Snowden è in teleconferenza con Corbin (magnificamente reso da Rhys Ifans) e un gioco di proporzioni esasperato racconta la drammaticità del momento, si è intravisto del vero, straordinario talento. Ma un grande momento non basta a rendere meno impersonale un film destinato a esser presto dimenticato.