Tra gli ospiti dell’undicesima edizione della Festa del Cinema di Roma uno dei più attesi era Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti. L’incontro con l’artista, dal titolo Le immagini, la musica e le parole, ci ha dato l’opportunità di conoscerlo anche in altre vesti. Jovanotti si è rivelato infatti un intenditore di cinema, per cui coltiva una particolare passione sin dalla tenera età.
Cherubini ha iniziato elencando tutto il cinema che avrebbe voluto includere, ma non ha potuto (tra i vari: Zemeckis, Kurosawa, Wenders, Scott, Spielberg, De Sica, Bertolucci, il cinema argentino, Grease, Pretty Woman, Pasolini, Jim Jarmusch, Lynch, Chaplin, Gilliam, De Palma) “per presentarmi a voi – dice – non come un cinefilo ma come una persona”.
Inizia così a dialogare con Monda dei quattordici film che ha scelto di presentare al pubblico dell’Auditorium, partendo dalla proiezione di alcuni spezzoni. Film che hanno accompagnato la crescita di buona parte del pubblico, per cui si prova un amore commovente. Si parte con i Blues Brothers (1980) di John Landis, perché “non c’è neanche uno spazio dell’inquadratura in cui non succede niente” e inoltre ha come protagonista la musica, con una forte costruzione simbolica. Da qui a La febbre del sabato sera (1977) di John Badham il passo è breve, e la musica è sempre una componente importante. Jovanotti ci dice che “di questo film mi piace lui: è stato il mio primo film visto illegalmente (perché vietato ai minori), quindi rappresenta il mio desiderio feroce di conoscere, la trasgressione”. Aggiunge che si tratta di un lavoro che all’epoca fece molto successo, ma la critica non lo accolse bene. Dimostra “quanto le cose nuove hanno una potenza che nessuno può prevedere, tranne chi le fa”.
Il terzo estratto viene da Kill Bill (2003) dell’ammirato Quentin Tarantino, che considera geniale, pieno di forza e “tecnicamente è un mostro”. Poi I 400 colpi (1949) di François Truffaut “è stato il primo che ho scelto. Truffaut mi fece sentire non più solo: quello che deve fare il cinema. Nell’ultima scena è presente il mare, che per me è proprio l’infanzia, quel momento in cui puoi scegliere tutto”.
Altrimenti ci arrabbiamo! (1974), di Marcello Fondato, rivela quindi la passione per le scene di distruzione, perché sono “come il rock, la musica di Skrillex: liberatorie. La vita infatti è un processo di costruzione, disfacimento e ricostruzione”. Racconta poi che Bud Spencer aveva una stazza simile al “babbo”, l’assimilazione lo ha aiutato a pensare che anche suo padre poteva essere divertente, oltre che molto severo.
Lo stacco è fortissimo con la pellicola successiva: Stand by me (1986) di Rob Reiner e poi Yuppi Du (1975) di Adriano Celentano. “Adriano nella storia del cinema è presente in modo anomalo. Mi piace perché mostra i contrasti: la donna è sia quella che vorresti spogliare, che la madonna”. Aggiunge che “la cosa più importante che Adriano mi ha insegnato è la cura dei dettagli, ma senza darlo a vedere”. Rimaniamo sul sentimentale con Un sogno lungo un giorno (1982) di Francis Ford Coppola e il film d’animazione La città incantata (2003) di Hayao Miyazaki. Coglie l’occasione per raccontare il rapporto che ha con la figlia, come da piccola abbia provato a fargli vedere i film che amava e come quest’ultimo autore rappresenti il loro legame. Questo film in particolare è importante perché “a un certo punto succede nella vita di accorgerti che i tuoi genitori sono persone e hanno i loro difetti. Nel film si trasformano in maiali e la protagonista fugge per vivere una grande opportunità che la farà tornare”.
Infine Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese, un film in cui è l’uomo che “si emancipa dalla donna”, Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller, “un film senza trama, quasi come un porno, suscita l’eccitazione dell’occhio” e Amarcord (1973) di Federico Fellini, non a caso alla fine. Jovanotti racconta che il brano Le tasche piene di sassi è stato ispirato da questo film. Lo zio Teo ricorda un po’ sua zia, “presenze irrazionali all’interno della famiglia sono un dono di Dio. Mi hanno fatto pensare che tutti abbiamo un po’ di pazzia”. Fellini seppure era ateo faceva i conti con la religione, la interrogava e qui il nome Teo, che significa Dio, sembra suggerire al cantautore che il regista volesse dirci “Dio è matto, perché non ragiona come noi”.
Sono passate due ore ma il pubblico vorrebbe trattenere Cherubini ancora a lungo: nonostante il cantante non sia un maestro del cinema, quello che è riuscito a regalare è stato prezioso, perché personale e sentito.
(foto di Lara Cetti)