Otto Bell presenta il suo primo documentario alla Festa del Cinema: The Eagle Huntress. Aisholpan è una tredicenne mongola, di una famiglia nomade, che ha un sogno: addestrare e cacciare con l’aquila. Per generazioni la sua famiglia ha praticato la caccia con l’aquila e partecipato al Golden Eagle Festival, sono stati però sempre uomini.
La caccia con l’aquila prevede che il cacciatore si muova a cavallo, cercando le prede. Una volta avvistate libera l’aquila che si deve lanciare alla presa. Si tratta di un lavoro di squadra che richiede grande collaborazione uomo-animale. Il cacciatore dovrebbe muoversi su punti alti, che permettano di puntare lo sguardo su una parte maggiore di territorio. Questa posizione viene sottolineata dalla inquadrature che sono spesso dal basso verso l’alto.
Cacciare è sempre stato un mestiere maschile e i saggi delle tribù ci tengono a sottolinearlo. La ragazza però non si fa scoraggiare, dimostrando che un lavoro duro, la determinazione e la passione possono portare lontano. Il suo è un vero talento, che il padre Agalai riconosce subito, così la educa e incoraggia nel suo cammino.
Una famiglia di allevatori e cacciatori presenta la sua intelligenza e umanità, credendo nell’emancipazione sociale e nella libertà di autodeterminazione. Spesso il progresso economico non è sinonimo di avanzamento morale e dei contadini possono essere più nobili di alcuni avvocati o medici.
Otto Bell lavora con un linguaggio essenziale, riprende Aisholpan nella sua quotidianità, tracciando come questa sfida modifichi abitudini e impegni. La macchina da presa è morbida, si utilizzano molte panoramiche che si muovono in campi lunghi, in un paesaggio di montagna dominato dal blu del cielo e dal bianco della neve. In questi spazi sterminati troviamo la ragazza con il padre a cavallo e la raggiungiamo da vicino, oppure seguiamo l’aquila che prende il volo. Questa tensione tra vicinanza e lontananza dal soggetto crea un ritmo narrativo che rispecchia lo stato d’animo della protagonista. Insieme a lei ci sentiamo spaventati dall’impresa ma fiduciosi del successo. Ad accompagnare i momenti di allenamento nella natura è una musica sacra, a cui spesso si aggiungono voci femminili, che assomigliano al sussurro del vento.
Lo spettatore è condotto dalla voce extradiegetica, che spiega cosa accade, permettendo di passare dalla ragazza alle interviste agli anziani, quindi in spazi e tempi diversi.
Il film funziona fino alla gara, tiene alta la tensione, facendo gioco anche sulla curiosità di conoscere tradizioni e abitudini lontane dal mondo occidentale.
Dopo la gara, la ragazza deve dimostrare di saper cacciare, quel momento sembra un’appendice al film. La tensione si è sciolta, le difficoltà affrontate sono ponderate e l’andatura del film sta andando diminuendo. Il finale indebolisce la potenza energetica, percepiamo già il risvolto della vicenda. Sarebbe funzionato meglio se il regista avesse cambiato ritmo, asciugando la sceneggiatura e utilizzando una musica che preannunciasse il trionfo immaginato, invece di continuare con un tono di mistero.
The Eagle Huntress ci porta nel mondo naturale come ha tentato di fare Abel, il figlio del vento di Gerardo Olivares e Otmar Penker, ma stavolta la potenza della storia è più forte della bellezza delle immagini. Come ne Il grande giorno di Pascal Plisson il cinema permette di conoscere tradizioni lontane dalle nostre e ci ricorda quanta forza e capacità di visione hanno i bambini, che, a volte, crescendo si disilludono e impoveriscono.
RomaFF11 – The Eagle Huntress: la recensione in anteprima (no spoiler)
L'avventuroso documentario di Otto Bell su una giovanissima cacciatrice mongola arriva alla Festa del Cinema di Roma.