La Festa del Cinema di Roma si chiude incontrando Roberto Benigni. Il comico e regista, il cui arrivo all’Auditorio Parco della Musica era inizialmente previsto per mercoledì 19, ha dovuto posticipare la sua presenza a causa di “un invito a cui non si può dire di no”, ovvero quello da parte di Barack Obama alla Casa Bianca. Ironizza Benigni, come sempre, e racconta come è stato accolto oltre oceano, dove tutta la scenografia era a tinte verdi, bianche e rosse, “mi aspettavo che anche il presidente fosse stato dipinto”. Un evento importante, come se nell’età romana “foste invitati dall’imperatore Adriano a Castel Sant’Angelo”. Benigni continua poi nel ripercorrere gli inviti più prestigiosi ricevuti nella sua lunga carriera, ricordando come sembrò un imperatore anche papa Wojtyla, quando lo chiamò al Vaticano per assistere all’anteprima di La vita è bella (1997). “Alla fine ha detto: ho pianto” e ha manifestato grande partecipazione per quella storia vicina e tremenda. Benigni puntualizza che La vita è bella è una tragedia che “come dice Dante: comincia bene e finisce male. Non è una commedia su Auschwitz. Volevo mettere un corpo comico in una situazione estrema”. La prima volta che un attore italiano ha vinto l’Oscar, ricorda Monda, per un film abbracciato a livello internazionale, che ha dovuto lottare. “Siamo riusciti ad affrontare un tabù: il comico che muore” solo grazie all’intuizione di Nicoletta Braschi di autoprodursi. Molti esercenti, soprattutto italiani, richiedevano che fosse tagliato il finale, perché Guido Orefice non sarebbe potuto morire.
Nicoletta Braschi, la sua compagnia nella vita, è stata ringraziata più volte, perché esiste un Benigni prima e dopo di lei. Loro hanno lavorato insieme come in una compagnia teatrale e la sua esperienza da attrice è stata fondamentale. Benigni è cresciuto con la madre e due sorelle, scoprendo che una vita senza una donna non si può concepire.
Viene poi proiettato un estratto di Il piccolo diavolo (1988), che gli dà l’incipit per dichiarare che “con l’ingresso di Nicoletta Braschi nasce la commedia. La sua presenza riporta tutto a terra” e in ogni film cerca di far vedere come cambia un uomo che incontra una donna.
Segue una parte di Johnny Stecchino (1991) dove c’è una donna sensuale e dura, che sa tenere sotto scacco l’altro sesso. Un film scritto con Vincenzo Cerami, che gli “ha insegnato a costruire” un racconto. Cerami lo stava scrivendo e Benigni ne ha visto il potenziale comico.
Un’altra sceneggiatura a quattro mani è Non ci resta che piangere (1984), un incontro tra anime affini. Dopo l’uscita di Ricomincio da tre (1981) Benigni ha pensato di fare un film con Massimo Troisi e “quando l’ho trovato, lui mi ha detto che mi stava cercando”. Così hanno deciso di divertirsi tra improvvisazioni rischiose, dialetti e sbalzi temporali. “Improvvisavamo tantissimo. Questo film è un’esplosione di gioia, d’amore e di stima reciproca. Riflette solo quel momento”. Di Troisi ricorda il suo senso tragico della vita, sapeva profondamente che il suo tempo era contato e portava con sé questa consapevolezza.
Roberto Benigni ne ha incontrati molti di geni, personalità straordinarie e rivoluzionari non solo del cinema, ma dell’arte.
Vediamo La voce della luna (1990) e ne approfittiamo per parlare di Federico Fellini. “Cercava di prendere da dentro ognuno di noi l’aspetto migliore” e questo film è stato “come un testamento della nostra società, un amaro commento dei nostri tempi”. Un grande autore che ha saputo rappresentare il sottile equilibrio tra sogno e realtà, “insieme solo a Bunuel”.
Down by law (1986) invece gli dà la possibilità di raccontare come abbia incontrato Jim Jarmusch. Erano entrambi giurati di un festival e dall’amicizia nata è venuta l’idea del film, nel quale Roberto Benigni e Nicoletta Braschi potessero rappresentare loro stessi.
Non prende mai fiato, è un vulcano che getta fiamme di vita, in cerca di bellezza costante, e rende ogni racconto magico. Viene da chiedersi quali sono favole e qual è realtà, ma infondo è davvero importante? Questo entusiasmo è contagioso e viene da pensare a quando in La tigre e la neve (2005) il suo personaggio racconta alle figlie perché ha deciso di fare il poeta. Si prova quel coinvolgimento che lui ha sentito quando ha visto per la prima volta La febbre dell’oro (1925), “volevo far parte della bellezza di Charlie Chaplin, che sta tra furore e grazia”.