“Where does reality stop… And the game begin?” “Play or be played.” – eXistenZ (1999).
“Come definire la realtà? Ciò che tu senti, vedi, degusti o respiri non sono che impulsi elettrici interpretati dal tuo cervello.” – Matrix (1999)
Alzi la mano chi di voi, dopo aver visto una puntata di Black Mirror, non mai ha avuto la tentazione di disiscriversi immediatamente da un qualsiasi social network o di buttare dalla finestra il proprio smartphone o pc. Quando un prodotto narrativo, di qualsiasi tipo, riesce nell’intento di trasmettere a chi ne fruisce questo tipo di emozioni e sensazioni, significa che abbiamo di fronte una vera e propria opera d’arte, che interpreta la realtà e contribuisce a formare una coscienza attraverso l’espressione di un punto di vista. Esattamente quel che fa Charlie Brooker con la serie di cui è showrunner.
Black Mirror è la coscienza critica della nostra generazione e ci mette in guardia sui possibili effetti collaterali di un’assuefazione tecnologica ormai senza fine rappresentando sullo schermo i nostri peggiori incubi. Se Nosedive, il primo episodio di questa nuova stagione (disponibile su Netflix dal 21 ottobre), mette in scena una società distopica fondata sulla valutazione individuale dei propri membri gestita da un social network (cosa che, stando alle ultime notizie, potrebbe già a breve diventare realtà in Cina), Playtest ci mostra i potenziali pericoli derivanti dall’alienazione causata dai videogiochi di ultima generazione.
In questo secondo episodio è il presente a stupirci con i suoi pericoli imminenti.
Playtest, diretto dal regista Dan Trachtenberg (10 Cloverfield Lane) e scritto dallo stesso Brooker, racconta la storia di Cooper (Wyatt Russell, figlio di Kurt Russell che ha lavorato anche con Richard Linklater in Tutti vogliono qualcosa), un ragazzo americano che, dopo la morte del padre, scappa di casa per girare il mondo. Ritrovatosi a corto di soldi in Inghilterra, pur di racimolare qualcosa si offre volontariamente come tester per un nuovo, avveniristico gioco messo a punto da una famosa game company. Ma i rischi a cui sta andando incontro sono ovviamente ben peggiori di quanto non possa immaginare…
Per la prima volta, Black Mirror si cimenta col thriller-horror puro.
Come abbiamo già detto nell’articolo dedicato a Nosedive, è lampante che la forza economica di Netflix metta a disposizione alla serie risorse finanziarie che sarebbero state proibitive per Channel 4 (la vecchia emittente britannica di Black Mirror) e questo, a partire dalla regia molto più ‘cinematografica’, salta immediatamente all’occhio. Il considerevole budget a disposizione però ha spinto Brooker a voler sperimentare maggiormente con i generi e a cercare di andare oltre al tipico e riconoscibile “Black Mirror style” (e non è un caso che, tra gli episodi di quest’anno, ci sia anche una sorta di period drama). In Playtest è l’horror a recitare la parte del leone, dato che la puntata è chiaramente costruita seguendo le regole tipiche del genere (evidenti sono le influenze di classici come La Casa e Un Lupo Mannaro Americano a Londra), prendendone anche in giro in un’occasione i cliché più scontati. Ma se credete di assistere solo a un buon mediometraggio dell’orrore vi sbagliate di grosso, perché lo sguardo cinico e spietato tipico della serie di Brooker trasformerà presto l’adrenalina in riflessione.
Playlist prende di mira, in maniera non proprio velata, i videogiochi in VR.
Da anni imperversa la discussione sulla presunta ‘pericolosità’ dei videogiochi, soprattutto di quelli violenti, ma se anche l’argomento può sembrarci retorico e anacronistico, di fatto numerosi studi scientifici hanno dimostrato una correlazione diretta tra abuso del gaming e alterazioni biochimiche a livello cerebrale e sistemico. E parliamo di studi che non hanno preso in considerazione i giochi in Virtual Reality, la nuova frontiera che permette al giocatore di ”entrare dentro” il gioco, abbattendo ulteriormente la soglia percettiva che distingue la realtà dalla finzione.
Brooker, che quel mondo lo conosce bene (ha iniziato la sua carriera di giornalista scrivendo recensioni sui videogiochi), sottolinea in Playtest che l’adozione di una nuova tecnologia deve sempre essere accompagnata da una buona dose di cautela. Siamo sicuri che la totale personalizzazione tramite il machine learning di un’esperienza di gioco immersiva sia un’esperienza così auspicabile?
La puntata si staglia sopra la qualità media – pur alta – della serialità televisiva, ma va detto che gli argomenti trattati non sono certo particolarmente originali, dato che il cinema se n’è già occupato con pellicole come Il Tagliaerbe, Matrix (e qui c’è un chiaro omaggio al film) ma soprattutto eXistenZ. Certo, il discorso che Playtest porta avanti è molto più attualizzato e radicato nell’attualità ma, nella pratica, riproduce in gran parte ciò che il capolavoro di Cronenberg ha già portato in scena nel 1999. Con una sostanziale differenza, però: se eXistenZ – e qui sta la genialità di Cronenberg – non svela mai quale sia effettivamente la finzione o la realtà e lascia che sia lo spettatore a decidere, l’approccio di Brooker è, in questo caso, più prevedibile e didascalico.
Molti fan della prima ora sicuramente non apprezzeranno l’episodio, così lontano dalle atmosfere tipiche di Black Mirror e che sicuramente non rappresenta l’apice della serie di Netflix, eppure, a prescindere dalla realizzazione tecnica impeccabile come sempre, Playtest rappresenta un’altra scommessa vinta dal geniale showrunner inglese.