La ragazza senza nome (qui la nostra recensione), è l’ultimo di lavoro di Luc e Jean-Pierre Dardenne, presentato in Italia poco dopo l’ennesima esperienza a Cannes. I due fratelli registi hanno il pregio di lavorare in sincrono alla perfezione, in un’armonia rara e preziosa che fa incontrare temperamenti in parte diversi. Li abbiamo incontrati in una roundtable a Roma per voi, cercando di approfondire gli intenti del loro cinema e in particolare della loro ultima fatica. I due registi, proprio come accade nei loro lavori, replicavano alle domande dei giornalisti alternandosi tra loro, senza mai contraddirsi o correggersi a vicenda, annuendo alle parole dell’altro, come fossero un’unica persona.
La ragazza senza nome è passato attraverso Cannes dividendo in due la critica. Come è cambiato il vostro approccio alla critica e al pubblico dopo questa esperienza, soprattutto di fronte ad un cinema mondiale che è sempre più indirizzato verso i grandi blockbuster?
Abbiamo utilizzato lo stesso metodo meticoloso che abbiamo sempre usato per i nostri film, che comporta una fase molto importante di prove con gli attori per riuscire a trovare le giuste inquadrature. A Cannes la critica è stata divisa sul film, ma è anche vero che c’era qualche cosa di cui non eravamo convinti neanche noi. Dopo Cannes la nostra disposizione d’animo e mentale era ovviamente cambiata e ci siamo resi conto che lo squilibrio era dovuto a un’importanza eccessiva dell’aspetto della cronaca del film: non c’era una sufficiente armonia tra quello che è la professione medica della dottoressa Jenny da un lato, e l’indagine che conduce per dare un nome a questa ragazza dall’altro. Si sarebbe dovuto creare un maggiore equilibrio tra questi due percorsi, che dovevano essere perfettamente intrecciati. A questo punto non abbiamo minimamente ritoccato l’ordine delle scene, quindi il montaggio nella sua struttura essenziale (la versione uscita al cinema rinuncia a circa sette minuti di film). ma abbiamo semplicemente accorciato alcune sequenze. Questo ci ha permesso in qualche modo di essere maggiormente nella mente di Jenny, di metterci molto di più nei suoi panni. Certo, è esagerato dire che abbiamo avuto bisogno di andare a Cannes per renderci conto di questo. C’è un motivo, e lì, sì, abbiamo agito in modo diverso rispetto a quello che abbiamo sempre fatto finora. Abbiamo impresso alla lavorazione un ritmo troppo veloce: soltiamente tra la fine delle riprese e il montaggio ci prendiamo quindici giorni di vacanza durante il quale non abbiamo sotto gli occhi il materiale e riusciamo a mettere la giusta distanza. Questo materiale nel nostro caso è composto di piani sequenza che durano fino a 10 minuti,e hanno un potere che ti strega, ti ipnotizza, ti assorbe completamente. La scelta di non fare una pausa tra il set e il montaggio ha fatto sì che arrivassimo in sala montaggio con un piede ancora sul set. È una cosa che non faremo mai più. D’altronde è vero che noi non facciamo un film per piacere a un pubblico, ma il film li facciamo per un pubblico, e chiaramente ci teniamo che i nostri film vengano visti,perché abbiamo qualche cosa da dire.
C’è una figura femminile che ha ispirato la vicenda di Jenny e della ragazza senza nome?
No, non c’è una fonte di ispirazione diretta , ma non abbiamo mai immaginato la dottoressa Jenny come un medico al maschile. Abbiamo subito pensato a una donna come è avvenuto nei due o tre film precedenti. È difficile capire perché un regista compia certe scelte. Probabilmente dipende anche dal fatto che siamo due registi che amano lavorare con attrici. Ma fondamentalmente pensiamo che le donne abbiano più polso, più forza, e un temperamento che si adatti a quella che è la società in cui viviamo.
Jenny è una dottoressa che si affida totalmente alla vista e al tatto, la vediamo prestare tantissima attenzione alle visite ai suoi pazienti. Crede solo alle risposte che un corpo può dare. La sua indagine invece è totalmente incentrata su una ragazza che non vede e non tocca. Come avete lavorato con Adele Haenel per raffigurare questa profonda distanza tra l’indagare e il non-toccare?
Abbiamo lavorato molto sull’assenza e sul vuoto. Di questa ragazza senza nome vediamo solo un’immagine in bianco e in nero dall’aspetto un po’ spettrale, un fotogramma della registrazione della videocamera di sorveglianza che a tratti ricorre nel film. Di fatto non c’è alcuna presenza reale e fisica. È proprio così che abbiamo lavorato con Adele: sul vuoto, sul silenzio, sull’assenza di qualunque cosa, nome compreso, in rapporto del tutto antitetico con la fisicità che l’esercizio della sua professione medica impone. Il silenzio è proprio quello che consente anche a noi spettatori di ripensare a quest’immagine fugace della ragazza. La scena in cui vede la foto per la prima volta capiamo che questa s’imprime, invadendo uno spazio molto grande che continuerà a circolare nella sua mente e a tornare in vari momenti del film. Allo stesso modo, speriamo che i momenti di silenzio suscitino nello stesso spettatore la stessa attesa di verità che sta vivendo lei. È per scelta un film poco giocato sulla parola , ma giocato tanto sul silenzio e sul vuoto. Quando Jenny mostra la foto della ragazza agli altri impiega qualche frazione di secondo in più per spegnere il telefono rispetto a quando lo fa di consueto con una telefonata: è una scelta precisa per indicare come quest’unica immagine l’accompagni. Sostanzialmente abbiamo utilizzato il silenzio nello stesso modo in cui avremmo utilizzato una musica in senso affermativo.
Il film ha un senso molto ambiguo quando si tratta di dover stabilire le colpe. La risoluzione del film, che porta un po’ ad assolvere tutti i personaggi, è stata una scelta politica o puramente cinematografica? O entrambe le cose, visto che i vostri film puntano solitamente a fondere i due aspetti?
La risposta è nella domanda. È proprio questo che noi cerchiamo di dire attraverso il film e attraverso il ritmo puntellato di quei silenzi, perché è tramite il silenzio che Jenny sceglie di far condividere ai suoi interlocutori il suo senso di colpa, in modo che questi possano essere indotti a parlare, a darle le informazioni che possano condurla a dare un nome alla ragazza, e quindi farla rientrare nella grande famiglia degli essere umani, perchè senza identità non ci sarebbe traccia del suo passaggio sulla terra. Ed è quello che noi cerchiamo di dire e fare attraverso il nostro cinema.
A questo punto il tempo a nostra disposizione finisce. I fratelli Dardenne ci lasciano un po’ dispiaciuti per la fine dell’intervista; hanno gli occhi che ancora parlano, ma subito si rendono conto che è ora di pranzo e ci salutano con una fragorosa risata. Luc Dardenne esclama con accento francese “andiamo a mangiare!”