In attesa di vedere Voyage of Time, il capolavoro presentato alla 73a Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, esce nelle sale Knight of Cups il penultimo film di Terrence Malick. Il regista dell’Illinois era assente dal grande schermo dal 2012 con il suo To The Wonder, una pellicola che, insieme alla sua precedente The tree of life (2011) segna un cambio di passo e una sorta di nuovo corso. Opere come I giorni del cielo (1978) e La sottile linea rossa (1998), se guardate alla luce dei suoi ultimi film, sembrano, seppur nella loro assoluta bellezza, i semi di una progressiva ricerca di un cinema capace di esprimersi con nuove possibilità narrative e nuovi linguaggi visivi. Non fa eccezione questo suo Knight Of Cups che continua a snodarsi attraverso un frenetico susseguirsi di frame e che per certi versi incamera e supera i confini marcati sia in The tree of life che in To The Wonder. Non a caso, a supporto di un percorso che nelle intenzioni vuole coinvolgere lo spettatore entrando fin nelle viscere dei suoi sensi, all’inizio del film i produttori invitano gli addetti alla proiezione a tenere molto alto il volume del suono.
Sin dalle primissime sequenze si svela il mondo di Malick. Un mondo itinerante, frammentato, criptico, massimamente simbolico. Un mondo che si scompone in particelle sottili, in atomi che volteggiano e vagano in un apparente disordine per tutti i 118 minuti di pellicola e che forse aspettano di essere ricomposti dopo l’accensione delle luci di sala. Un mondo, ci si consenta, “Uno e Trino” che qui si muove di volta in volta utilizzando territori diversi e opposti: laici, confessionali o pagani. Ed è forse per tutto questo che ci viene la tentazione (che assecondiamo) di omaggiare per primi coloro che si sono occupati del montaggio: Geoffrey Richman, Keith Fraas, e A. J Edward. Il loro lavoro, già di per sé fondamentale per la riuscita di un film, con Malick diventa un esercizio di equilibrio pari a quello di Nik Wallenda che attraversa il Grand Cayon camminando lungo una corda sospesa nel vuoto.
Knight Of Cups è il racconto di uno sceneggiatore, Rick, che attraverso le tante vite che incontra nella realtà e nella fantasia dei suoi personaggi si mette alla ricerca della propria vita; di quella perla che il re, suo padre, gli disse di cercare in Egitto ma che lui non cercò perché in Egitto lo fecero bere da una coppa che subito dopo gli procurò la perdita di memoria e dimenticò di essere il figlio del re. Quella era una favola ma Rick ora quella perla vuole cercarla davvero, forse perché un dramma ha colpito la sua famiglia, ha modificato le relazioni dei suoi componenti, ha reso più complicati i loro rapporti e lui ora si è smarrito. Rick passa da una festa all’altra nello sfavillante mondo del cinema, dei casting e della pubblicità. A lui piacciono le donne, in loro trova conforto e da ognuna impara qualcosa. Ogni donna gli svela piccoli pezzi di vita ma lui non sa esattamente se sia davvero quello che cerca. E allora prova a mettere a fuoco le vite dei suoi personaggi o finanche quelle delle figure dei tarocchi, alcune delle quali dividono il film in capitoli (La luna, L’appeso, L’eremita, Il giudizio, La torre, La papessa, La morte, La libertà). Ma alla fine giunge a un bivio: da una parte può continuare la ricerca di un senso, che prevede anche la possibilità di girovagare a vuoto nello spazio, oppure può riprendere la strada dell’Est, quella da dove proviene e dove c’è un re, suo padre, che lo aspetta e a cui deve consegnare la perla.
Knight Of Cup è un film dove consigliamo allo spettatore di alzare decisamente la soglia di concentrazione. Non è di facilissima comprensione ma se si riesce a entrare nel meccanismo ci si lascia trasportare e perfino accarezzare. In caso contrario l’effetto “anestetico” è sempre in agguato senza neanche dover ricorrere alla ketamina peraltro citata nel film. A venirci in soccorso affinché non ci sia bisogno di stimolanti, per fortuna c’è un cast ai cui nomi probabilmente non bisogna aggiungere altro: Christian Bale, Cate Blanchett, Natalie Portman. Bale si conferma uno degli attori più eclettici in circolazione. Dopo aver visto questa sua interpretazione, provate a pensare al suo personaggio di American Hustle – L’apparenza inganna e avrete l’immagine plastica del suo talento poliedrico. Natalie Portman è forse la figura più spiazzante e riuscita del film, con tratti di cui si rimane ora affascinati, ora “disturbati”. Tutto merito della sua performance. Poi c’è Cate Blanchett, per lei una sola parola: Divina. Il capitolo in cui duetta con Christian Bale, “Il giudizio”, è il concetto di sublime allo stato puro. Il cast si completa poi, e scusate se è poco, con Brian Dennehy, Antonio Banderas, Freida Pinto, Wes Bentley, Isabel Lucas, Teresa Palmier, Imogen Poots, Armin Mueller-Stahl.
Ma se proprio il linguaggio di Terrence Malick vi sembra insuperabilmente ostico, troverete comunque un motivo, e che motivo, per continuare la visione e gustarvi così la fotografia del messicano Emmanuel Lubezky. Il “Chivo” (“Il bambino”, nomignolo datogli dal Alejandro Gonzàlez Inàrritu) è il vincitore degli ultimi tre Oscar con i film diretti da suoi connazionali: Gravity (Cuaròn 2013), Birdman (2014) e The Revenant (2015) entrambi di Inàrritu.
Tutto bene dunque? La risposta, per quanto possa apparire paradossale dopo quanto detto, purtroppo è no. Knight of Cups non è un brutto film ma ha un limite grande come una casa: il cinema “gassoso” di Malick non basta a filmare un intero mondo interiore. Né al momento si può sapere se qualcuno sarà mai in grado di farlo. La sua pretesa (legittima) va a sbattere non tanto contro la sbornia di sequenze infinitesimali che spesso si pongono al confine con la tecnica del videoclip, quanto contro il bombardamento di forme, parole e movimenti troppo convenzionali per avere un autentico feedback con la complessità dei sentimenti che attraversano la mente di un uomo smarrito.
“I pezzi della propria vita non si riuniscono mai”, dice il re, il vecchio padre di Rick. Questa la nostra proposta per una via d’uscita e magari per una delle possibili chiavi del film che, se ridimensionati gli obiettivi di partenza, ha un suo gran perché e ne consigliamo la visione. Il merito di Malick, il più grande, è quello di provare ad allargare la mappa del cinema. Stavolta gli è riuscito un po’ meno.
Knight of Cups: la recensione in anteprima (no spoiler)
Torna in sala Terrence Malick con un film che pur volando alto e rappresentando la quintessenza del suo cinema più recente, non riesce a toccarne le vette.