Nella Polonia del 1945 una giovane dottoressa (Lou De Laâge), mandata ad assistere i francesi sopravvissuti ai campi di concentramento, viene avvicinata da una suora che in gran segreto la riconduce al suo convento per assistere una sorella incinta. Presto sarà evidente che la compagine bellica ha lasciato il segno anche in quel luogo isolato e che l’aiuto necessario va ben oltre quello richiesto inizialmente.
Agnus dei è il racconto di una tragedia collaterale comune a ogni guerra: lo stupro. Anna Fontaine, regista e autrice del film, confeziona una pellicola con chiari intenti di denuncia, in cui però una certa carenza di coraggio e mordente finisce per normalizzare il dramma, privandolo di ogni eccesso e rendendolo perfettamente digeribile per quel pubblico un po’ anziano e borghese a cui sembra parlare molto del cinema italiano degli ultimi anni. E pensare che proprio noi italiani, nel 1960, con La Ciociara raccontammo lo stupro con un’audacia che, alla luce di Agnus dei, è ancora sbalorditiva.
Una delle prima cose che deve fare un film per convincere lo spettatore a credere all’inganno narrativo, come diceva anche Lynch, è coinvolgerlo in un’atmosfera che non ha mai visto – che nel caso del cineasta statunitense è la dimensione onirica, mentre in questo potrebbe essere quella bellica – per portarlo a empatizzare coi protagonisti. Basti pensare allo straordinario lavoro fatto da Polanski e Brody ne Il pianista, dove le macerie, il freddo, la solitudine e la presenza della guerra erano vive; entravano nelle ossa dello spettatore e lo portavano subito in un’epoca tormentata. La Polonia di Agnus dei, invece, è soleggiata, calda, primaverile; un’ambientazione piacevole dove nonostante la neve la protagonista va allegramente in giro in bicicletta, fin troppo ‘spensierata’. Il convento, nonostante non si vedano stufe o camini, è un luogo caldo, ordinato, dove il cibo, le coperte e le risorse non mancano mai e dove sembra che la guerra sia passata solo per un attimo. Non si vedono mai i sopravvissuti e non si parla mai di loro; la questione dei campi di concentramento, dell’ereditá della guerra e dei disastri che ha provocato non viene affrontata e dopo pochi minuti si perde la concezione dell’ambiente e dell’epoca storica. Il film potrebbe essere ambientato in un’abbazia toscana negli anni ‘60 e nulla cambierebbe.
D’altra parte Anna Fontaine ha deliberatamente deciso di raccontare questa storia dal punto di vista più dolce possibile, pregando come al solito lo spettatore affinché versi qualche lacrima. Un onnipresente tono assolutorio priva tuttavia la pellicola della necessaria dinamica, e uno script con troppe incongruenze ed estraneo al concetto di causalità fa sì che eventi che in altri contesti basterebbero a dare il via a un film vengano rappresentati e immediatamente dimenticati, quasi senza lasciar traccia. Anche nel momento di massima spannung, dove si scopre una grande, enorme, tragedia, la storia prosegue sempre con il sorriso e un occhio al futuro. Ogni volta che la trama si presenta davanti a un bivio la regista sembra non prendere posizione e non scegliere, mandando avanti tutto come se non fosse successo niente.
Il dramma si sgonfia così completamente e al suo posto subentra una storia di sorrisi, aiuto umano e amicizia; arrivando addirittura a qualche battuta divertente e all’inserimento di una componente amorosa la cui presenza risulta fuori luogo.
La Francia è uno dei pochi paesi che può vantare diverse ottime e giovani registe, forti di un grande desiderio di guardare avanti e portare il cinema verso il futuro: da Melanie Laurent (Respire) a Maïwenn (Mon roi), dalla maestra del cinema sessuale francese Catherine Breillat agli ottimi lavori di Emmanuelle Bercot (A testa alta). Agnus dei rispetto a questa tendenza fa un passo indietro, regredisce: pur volendo raccontare un danno collaterale della guerra ne elimina la forza cinematografica e non tratta con sufficiente convinzione la fede conservatrice della badessa, preoccupata più del convento che delle sorelle. L’autrice accenna a tanti ricchi argomenti che non sviluppa mai e che non porta mai a conclusioni convincenti; il rapporto causa-effetto porta sempre all’indulgenza, al perdono e all’assoluzione, fino al finale anticlimatico che sembra quasi prendere in giro lo spettatore.
Il tono mai estremo della pellicola è chiaramente il frutto della volontà esplicita della cineasta, ma viene da chiedersi se lo sguardo della Fontaine fosse adatto per questo tipo di vicenda, visto il risultato fin troppo edulcorato e a tratti addirittura confusionario.
Raccontare una grande tragedia in maniera pacata e ricondurla al quotidiano è un’operazione quasi impossibile. Ci riuscì Gus Van Sant con Last days (la morte di Cobain raccontata come se fosse una persona qualunque) e con Elephant (il racconto della strage alla Columbine.). Chissà cosa sarebbe stato Agnus dei se la mente dietro a tutto fosse stata la sua…
La pellicola è comunque passata dal Sundance ed è stata tra le 4 pre-selezionare dalla Francia per la corsa agli Oscar, quindi se volete verificare di persona quanto l’estrema sobrietà di questa storia violenta sia adatta al vostro gusto, non vi resta che recarvi al cinema dal 24 novembre (e in anteprima in cinema selezionati a Roma, Torino e Milano dal 17 novembre).
Agnus Dei: la recensione in anteprima (no spoiler)
Arriva in sala la pellicola di Anne Fontaine presentata al Sundance 2016: una storia di violenza e speranza ambientata in un convento.