“Io ti amo. Non sto cercando di amarti”. Basta forse solo una battuta di un dialogo, fra i pochissimi presenti in Porto, per rendere veramente prezioso l’esordio nella finzione del documentarista Gabe Klinger che il 34°TFF inserisce nel proprio concorso principale.
Un film semplice quanto stratificato, intimo quanto potenzialmente empatico, vuoto di parole quanto denso di sensi e di significato: Klinger, per l’occasione prodotto da Jim Jarmusch, da una parte omaggia il cinema portoghese (e un particolare quello di Manuel Olivera) dall’altra si concentra sulle sensazioni piuttosto che sulla storia raccontata, tanto semplice che ricorda a tratti Prima dell’alba di Richard Linklater (e proprio l’amicizia fra Linkater e James Benning era al centro del documentario che Klinger presentò a Venezia appena tre anni fa).
Ma a differenza di Prima dell’alba il regista brasiliano decide di raccontare la vicenda di Jake (Anton Yelchin) Mati (Lucie Lucas) – un americano e una francese che si incontrano a Porto e si amano nell’arco di una notte – destrutturando linee temporali e sguardi narranti e declinando la storia su più piani: il film è diviso in tre capitoli che prendono il titolo dai protagonisti del film (“Jake”, “Mati” e “Jake e Mati”) e al loro interno le scene sono ulteriormente alternate fra presente e flashback, intrecciando spesso i capitoli in più punti di contatto con frammenti che si inseguono e si riprendono. E’ un loop che Klinger riprende con due stili diversi: le scene dei due protagonisti isolati da loro stessi sono riprese da una 8mm tenuta a mano e incorniciate nei 4/3; le scene dove la coppia si (ri)unisce sono colte nel widescreen con una 35mm. E’ una punteggiatura linguistica azzardata ma che tutto sommato non appesantisce la narrazione e riesce nell’intento di utilizzare la macchina da presa come strumento diaframmatico, facendo inspirare e respirare la storia, imprigionando i protagonisti in se stessi e poi liberandoli, confinando gli spazi e poi restituendo ai corpi capacità di movimento e di azione.
Così, mentre un piano jazz accompagna i due protagonisti perlustrando vie e dettagli di Porto, Jake e Mati si incontrano, si amano e si combattono, in un cortocircuito di coppia, privato e al tempo stesso universale in quanto cambierà per sempre le loro vite (e non solo le loro). Anton Yelchin, recentemente scomparso (e a cui è dedicato il film) è bravissimo a veicolare l’inquietudine del suo Jake, in particolare nel suo essere sempre sul punto di esplodere senza esplodere mai: la sua ultima prova di attore ci conferma il valore di quello che era un talento unico purtroppo cancellato per sempre da un maledetto incidente domestico.
Ma ciò che rende forse così accogliente Porto è che Kilnger ci regala del tempo di fermarci. Che sia intorno ad un tavolo di un ristorante aperto tutta la notte o in mezzo alla strada vicino al molo di una città al confine fra l’Europa e le Americhe, fra Olivera e Jim Jarmusch. Ed è in questa terra di mezzo, ideale e idealizzata che ci fermiamo insieme a Jake e Mati: per citare Proust, ricordare fantasmi del passato, baciarsi ancora una volta, forse l’ultima. In definitiva c’è tempo per perdersi e ritrovarsi e Porto è un piccolo gioiello di una Novelle Vague riscoperta, un film sfuggevole proprio come le perdite che racconta, capace di sorprendere per alcuni attimi come quando ritroviamo un oggetto smarrito. Come recita quella bellissima battuta, un film da amare (e molti se ne sono già innamorati) senza cercare di farlo.
TFF34 – Porto: la recensione in anteprima (no spoiler)
Raccontando un incontro lungo una notte Klinger riscopre sperimentazioni linguistiche. Enorme interpretazione di Anton Yelchin, scomparso di recente.