Tutti coloro che sono ancora traumatizzati dalla vittoria di Donald Trump alle ultime Presidenziali USA, sappiano che Clint Eastwood sembra aver concepito Sully appositamente per smentire che questa America stia inesorabilmente precipitando nel vuoto. Anzi, il film pare raccontarci un paese che – nonostante tutto – ha ancora possibilità di salvarsi e magari rimanere illeso come l’Airbus A320 pilotato da Tom Hanks, che riesce a trasformare una catastrofe quasi certa in un trionfo del “fattore umano”, lo stesso fattore umano che ha deciso di mettere Trump sul trono politico più importante del mondo. È sempre il solito Eastwood dunque? Quello che vota Repubblicano (lui Trump l’ha pure “endorsato”) e poi fa film progressisti? Le cose sono un pochino più complicate, come sempre quando parliamo del cinema di Clint Eastwood.
La vicenda storica
Il film, è noto, tratta della straordinaria vicenda del volo US Airways 1549 che il 15 gennaio 2009 decollò dall’aeroporto newyorchese di La Guardia per perdere quasi subito entrambi i motori a causa di un bird strike, espressione tecnica per indicare l’impatto di una massa di volatili contro i propulsori di un aereo. Il comandante, Chesley ‘Sully’ Sullenberger, spiazzando ogni previsione e bypassando i consigli della torre di controllo, non decide il ritorno all’aereoporto ma ha un’intuizione diversa e alquanto bizzarra: secondo la sua opinione l’unica possibilità di salvezza è atterrare (ammarare) sull’Hudson, il fiume che passa in mezzo all’isola di Manhattan e lo Stato del New Jersey. Miracolosamente l’ammaraggio non fa vittime: i 155 passeggeri e l’intero equipaggio del volo ne escono illesi. E “Sully” diventa un eroe.
Eroi ed anti-eroi
Sulla è un eroe che Eastwood racconta come di consueto nel suo modo: cioè demitizzandolo, riducendolo ad un privato cittadino che “fa bene il suo lavoro” ed è supportato da una comunità di persone semplici e di buon cuore (il copilota, i passeggeri, gli operatori della sicurezza marina). Parallelamente Eastwood muove critiche, nemmeno troppe velate, al mondo dei media colpevoli di aver semplificato e personalizzato tutta la storia perché, a differenza del motto brechtiano, per vendere i giornali c’è “bisogno di eroi”. È una narrazione classicamente Eastwoodiana che avevamo già colto in Invictus e – in parte – in Gran Torino. Dopotutto Tom Hanks interpreta benissimo il ruolo dell’anti-eroe ingenuo e inconsapevole, quello che insomma fa cose-più-grandi-di-lui (già con Bridge of Spies aveva preparato bene il terreno). Quello che doveva essere un film sull’impresa eroica di un comandante di aerei di linea diventa così un racconto corale sullo spirito umile e l’umanità del popolo americano.
Il racconto dilatato
Il vero cuore del film è però l’indagine successiva all’incidente: al comandante Sullenberger si contesta di aver fatto la scelta più pericolosa e meno naturale. Mentre in The Flight Robert Zemeckis raccontava di un impostore proclamato eroe, Eastwood capovolge il senso del racconto: l’eroe rischia di essere accusato di negligenza ed approssimazione. È in questo modo che Eastwood riesce ad imbastire un film di un’ora e mezza su un volo che dura 6 minuti (dal decollo all’ammarraggio) e per darci una visione ancora più dilatata inserisce frammenti di ipotesi che mostrano, nell’immersività della proiezione IMAX, cosa sarebbe accaduto se “Sully” avesse provato ad atterrare in uno dei due aeroporti disponibili nelle vicinanze della zona metropolitana di New York: un disastro di proporzioni incalcolabili che avrebbe coinvolto non solo i passeggeri del volo ma anche gli abitanti della Grande Mela, riesumando inevitabilmente i fantasmi degli attentati dell’11 settembre 2001.
Contro l’establishment
C’è qualcosa che però non funziona in Sully: se da una parte Eastwood spoglia il comandante Sullenberger di facili eroismi, sembra allo stesso tempo caricare oltremodo di antagonismo la commissione d’inchiesta che indaga sull’ammaraggio che viene fin da subito presentata diffidente e cattiva. Chi ha letto il libro di memorie dello stesso Sullenberger – e a cui si ispira la sceneggiatura scritta da Todd Komarnicki – sa bene le cose sono andate diversamente in fase processuale rispetto a come invece le ha mostrate Sully, che nel finale vira quasi sul legal-thriller. È forse qui che rintracciamo una debolezza di fondo del film: la necessità – a tutti i costi – di raccontare un conflitto fra l’uomo semplice e una burocrazia istituzionale che al solito decide di mettergli i bastoni fra le ruote. Una semplificazione che ha creato non poche polemiche al di là dell’oceano mettendo in cattiva luce un’istituzione molto rispettata come l’NTSB a cui va il compito di indagare sui disastri aerei.
Emerge quindi un filo sottile ma significativo che mostra forse il punto di contatto fra l’America di Trump e quella raccontata da Eastwood: la necessità (tutta trumpiana) della Nazione di divincolarsi dall’establishment, la lotta intestina fra individuo semplice che fa le cose giuste senza sapere perché le ha fatte e gli esperti che con tutte le loro tecniche e competenze alla fine sbagliano sempre. Sotto questo punto di vista Sully perde quell’aura di epica nazionale innocua e quasi progressista e rischia di trasformarsi nella proiezione di un’America – questa volta si – pienamente specchio del suo neoeletto presidente. Un’America che forse non ha bisogno di eroi ma che invece continua ad aver bisogno di nemici.