In una scena di Christine, presentato in concorso del 34° Torino Film Festival, la protagonista che si trova ad una festa aziendale si spaventa sentendo in lontananza un fuoco d’artificio esploso durante i festeggiamenti del 4 luglio: Alberto Campos, che dirige il film, quel fuoco d’artificio ce lo fa sentire come fosse uno sparo. È un inquietante campanello d’allarme che sta esattamente a metà pellicola e rappresenta un momento spartiacque nella narrazione: segna in modo inesorabile il declino della vita privata e professionale di Christine Chubbuck (Rebecca Hall), giornalista di una stazione televisiva locale passata alla storia per essersi suicidata in diretta televisiva durante un notiziario condotto da lei stessa, sparandosi un colpo di pistola alla nuca.
Quando l’informazione cambiò per sempre
Siamo nel 1974 e gli Stati Uniti sono nel pieno del Watergate: il Presidente Nixon è stato messo alle strette anche grazie al giornalismo d’inchiesta di Bob Woodward e Carl Bernstein e il film di Campos apre proprio con una scena in cui Christine Chubbuck, che lavora per un’emittente locale di Saratosa in Florida, simula davanti alla telecamera un’ipotetica intervista al Presidente degli Stati Uniti. Capiamo subito che Christine è una giovane donna di 28 anni tanto ambiziosa quanto fuori posto nel mondo dei network televisivi locali: le storie che predilige raccontare in modo meticoloso e professionale nei propri servizi parlano dei problemi della gente comune, di urbanistica e di allevamento. Ma se ai piani alti il modello è quello del prestigioso giornalismo d’inchiesta che ha inchiodato Nixon e a cui Christine sogna un giorno ad arrivare, nella realtà più marginale della sua rete televisiva emerge sempre di più la volontà di costruire intorno alla notizia un immaginario sensazionalistico, privilegiando per lo più fatti di sangue, storie scandalose ed episodi grotteschi della società. È l’inizio di una rivoluzione mediatica nel racconto della realtà attraverso le news che a breve diventerà sistematica: per aumentare l’audience diventa prioritario dare in pasto al pubblico televisivo del macabro voyeurismo a discapito delle più elementari regole dell’etica giornalistica (in Italia la questa rivoluzione avrà luogo con l’incidente di Vermicino e la morte di Alfredino Rampi seguita morbosamente in diretta da milioni di italiani). Mentre il sistema va da una parte, Campos ci racconta Christine Chubbuck come un corpo anomalo il cui suicidio on air (compiuto dopo un breve proclama di protesta per le scelte editoriali della propria emittente) fissa un momento significativo (e allora inascoltato) durante un periodo in cui il modo di fare informazione televisiva stava cambiando per sempre.
I dubbi non risolti
Ma Campos non vuole ridurre in modo ideale o ideologico la tragedia di Christine Chubbuck confinando il motivo scatenante del suo gesto nella sola stretta professionale in cui si era trovata, magari per ricamarci sopra una lezione di morale per chi guarda il film: procede invece a vivisezionare un personaggio multisfaccettato, la cui mancata realizzazione sul posto di lavoro è accompagnata parallelamente da una vita sociale quasi nulla, dai conflitti quotidiani con la madre con cui vive, dalle delusioni sentimentali nei confronti del collega e anchor-man Greg (un bravissimo Michael C. Hall, che molti ricorderanno nel ruolo di Dexter) e infine da problemi di salute, sia fisici che mentali di una persona che in passato era già stata incline a manie depressive e a istinti suicidi. Emerge dunque un profilo psicologico complesso e stratificato che ricorda per certi versi quello del nostro Luigi Tenco: anche lui suicida per una “protesta professionale”, anche lui con una vita privata tutt’altro che serena e decifrabile. Insomma, Campos non la fa affatto facile e non risolve nessun dubbio. La sua autopsia a 360 gradi delle ultime settimane di Christine Chubbuck rimane senza diagnosi, lasciando allo spettatore il compito di individuare cosa veramente l’abbia spinta a una scelta così drastica.
Una straordinaria Rebecca Hall
Campos confonde ancora più le acque utilizzando uno stile visivo ben preciso: molti piani stretti, alcuni claustrofobici, in cui cerca di cogliere lo sguardo psicologico di Rebecca Hall ancora prima che quello del suo viso; e poi amplifica la narrazione dei suoi stati d’animo attraverso un minuzioso lavoro di sound design, fatto di rumori, battiti e colpi improvvisi che generano una vera e propria colonna sonora “umorale”, quasi a simboleggiare lo stress e l’ansia a cui è sottoposta la protagonista. Ed è proprio Rebecca Hall, nella sua prima parte importante, a essere capace di fare totalmente suo il personaggio – complicatissimo – della Chubbuck: la sua è una interpretazione straordinaria, veicolata attraverso piccoli gesti del corpo, vibrazioni delle labbra e del viso, sbalzi d’umore inaspettati e repentini. Raramente un’attrice riesce a restituire sul grande schermo il tormento interiore di un personaggio in modo così preciso e dettagliato.
In conclusione Christine ha tutte le carte in regola per portarsi a casa da Torino qualche premio importante (le ha sicuramente l’interpretazione di Rebecca Hall), sia per per il forte valore simbolico di un racconto tanto dolorosamente privato quanto sintomo di un mondo che stava cambiando, sia per i tanti interrogativi che proietta anche oggi nell’era che l’Oxford Dictionary ha recentemente battezzato come Post-truth (e che investe in un dibattito tutto il mondo dell’informazione, online e offline): una società dove la verità dei fatti oggettivi raccontati da un giornalismo di qualità ha meno influenza nell’opinione pubblica rispetto agli appelli emotivi, alle convenzioni personali e alle bufale che diventano virali attraverso gli algoritmi del web. Un’ulteriore minaccia a quell’etica professionale che aveva a cuore Christine Chubbuck.