Essere recidivi. È molto facile commettere tale aggravante sul grande schermo nell’era dei sequel, spin-off e reboot . Il cinema italiano vuole essere al passo con i tempi e perciò dietro un canonico film di Natale può nascondersi un numero due, e così dopo gli ottimi incassi al botteghino di Io che amo solo te, Marco Ponti dirige La cena di Natale, tratto dall’omonimo romanzo di Luca Bianchini.
Avevamo lasciato i giovani Chiara e Damiano dopo un matrimonio non particolarmente sentito, dove quasi tutto non era andato come previsto, mentre l’impossibile storia d’amore tra Don Mimi e Ninella era stata messa in pausa.
La cena di Natale si configura come un cinepanettone atipico travestito da commedia sentimentale: si riprende la coralità dei film di De Sica & Co. ma si sostituisce la comicità con i buoni sentimenti. Il finale del primo film aveva innescato una serie di movimenti narrativi che facevano ipotizzare probabili sviluppi futuri. In questo sequel però i protagonisti si muovono come in un isterico avanti e indietro in cui non si riescono a portare a termine le storie principali, e quelle secondarie hanno dei finali decisamente poco coinvolgenti.
Il regista costruisce un film fortemente conflittuale dove la sceneggiatura rafforza dei personaggi caricaturali, rappresentazione di vizi e malcostume degli italiani, che purtroppo rimangono bidimensionali, compiendo sempre le medesime azioni e gli stessi errori, ritornando esattamente al punto di partenza.
La parte dedicata alla cena del titolo è povera sia a livello quantitativo che qualitativo, una scelta molto poco ‘made in Italy’. Marco Ponti afferma che il personaggio “carogna” interpretato da Riccardo Scamarcio deriva dalla miglior commedia italiana, ma, seppur vero sulla carta (vedi Marcello Mastroianni in Divorzio all’italiana), ai nostri occhi Damiano resta un eterno e infantile ragazzino spaesato, inadeguato a essere marito nel primo film e qui impreparato a diventare padre.
Inoltre, la pellicola tenta di essere così falsamente moderna da risultare doppiogiochista. Si raccontano le modern family italiane eppure lo sguardo è profondamente tradizionalista. Le donne non lavorano, sono troppo impegnate a occuparsi della casa, dei capelli e a complottare per scoprire la possibile amante del marito. Segue una vera e propria guida sugli stereotipi dell’essere omosessuale che sono raccolti in maniera impeccabile nella pellicola. Le gag hanno l’appeal di un vibratore senza pile (similitudine dovuta all’ennesimo siparietto che prova a far ridere con questo oggetto) e la zia milanese di Veronica Pivetti dà il colpo di grazia all’originalità della parte comica.
Riccardo Scamarcio e Laura Chiatti interpretano dei personaggi che già conoscevamo bene, e perciò l’interesse per la loro storia è ai minimi storici. Seppur convincenti, Michele Placido e Maria Pia Calzone portano avanti la loro storyline parallela ma rimangono ingessati in personalità immobili.
Se avete apprezzato Io che amo solo te probabilmente questo secondo atto vi convincerà come una lasagna riscaldata il giorno di Santo Stefano. A qualcuno, inspiegabilmente, piace anche di più.
La Cena di Natale: la recensione in anteprima (no spoiler)
Arriva in sala il sequel di Io Che Amo Solo te, ma il risultato è un cinepanettone sentimentale dallo script particolarmente debole.