C’è un tentativo ambizioso nel lungometraggio di esordio di Andrea De Sica (figlio di Manuel e nipote di Vittorio) unico film italiano in concorso al Torino Film Festival: è la scommessa di contaminare un cinema d’autore di alto livello insieme ad un immaginario più codificato dal mainstream, abbracciando anche atmosfere che sfociano quasi nella cinematografia di genere.
Una gabbia d’oro
Non a caso l’ambiente narrativo che il regista sceglie per I figli della notte è molto lontano dai tipici scenari del cinema italiano e rimanda invece ad un sistema di simboli più diffuso oltreoceano: si tratta di un collegio esclusivo per rampolli dell’alta società, un luogo nascosto e immerso nell’innevata Val Pusteria in Alto Adige. Il protagonista è il diciassettenne Giulio (Vincenzo Crea), che viene parcheggiato dalla madre in questa sorta di “gabbia dorata” dove gli educatori fanno rispettare un sottile regime di repressione e un totale isolamento dei ragazzi dall’esterno. L’amicizia di Giulio con il compagno ribelle Edoardo (Ludovico Succio) consentirà al ragazzo di conoscere un lato più intrigante della sua segregazione: delle evasioni sempre più frequenti nel cuore della notte lo condurranno a scoprire un bordello in mezzo al bosco e a conoscere la giovane Elena (Yuliia Sobol), prostituta bielorussa della quale rimarrà morbosamente attratto.
Fra Kubrick, Lynch e Truffaut
Di carne al fuoco, insomma, ce n’è tanta e De Sica filtra tutto l’impianto filmico attraverso un’atmosfera oscura e misteriosa, fino a mettere in scena alcune suggestioni metafisiche e quasi horror. E’ una sorta di Attimo fuggente virato al color tenebra, una favola nerissima, in cui si intravedono il lynchiano One Eyed Jacks, i corridoi dell’Overlook Hotel di Kubrick e il collegio dei Bambini ci guardano di De Sica (nonno). Fino a qualcosa che ci ricorda i 400 Colpi di Truffaut, con un Antoine Donel atipicamente ricco e figlio di papà. Che Andrea De Sica insomma sia un cinefilo accanito ci appare dunque cristallino e la sua capacità di aggregare tutti questi riferimenti in modo spontaneo e con una regia pulita e rigorosa giovano al ritmo e alla tensione del film. Di contrappeso, però, ciò che non riusciamo a mettere completamente a fuoco, è invece l’autorialità più personale di De Sica, il suo marchio di fabbrica originale, svincolato e liberato da sovrastrutture citazionistiche.
La sofferenza dei figli di Papà
La vera novità è invece lo slancio – tanto azzardato quanto coraggioso – di raccontare il tormento adolescenziale superando l’idea di emarginazione sociale e ribaltando ogni preconcetto sui figli di papà. Dall’altra parte i ragazzi che animano il collegio di De Sica sono tutt’altro che giovani emarginati: sono figli di famiglie altolocate, eredi di potenti industriali e prossimi protagonisti assoluti della classe dirigente e imprenditoriale del paese. La sceneggiatura scritta dallo stesso De Sica insieme a Mariano Di Nardo e con la partecipazione di Gloria Malatesta insiste su una sofferenza profonda, generata da strappi familiari e affettivi che li rende soli, abbandonati e talvolta rabbiosi; tanto che la direzione del collegio tollera anche i loro sfoghi più animaleschi (gli atti di bullismo) come del resto le stesse fughe notturne di Giulio e Edoardo nel vicino bordello sono conosciute e permesse. Sono giovani vite dunque in cui ogni scelta, anche la più antisociale, sembra essere prevista, assorbita ed elaborata; sono marionette senza fili, giocattoli per genitori incoscienti e con il destino di ognuno di loro già prematuramente deciso a tavolino. L’intento narrativo fin qui è chiarissimo: anche i (figli dei) ricchi piangono, eppure lo slancio finale di Giulio, che sprofonda come altri in un’angoscia insopportabile cercando di divincolarsi definitivamente e tentando di scegliere in modo indipendente il proprio futuro, è un impeto forse abbozzato con troppa rapidità, soprattutto nel finale, tanto da farlo apparire perlomeno improvvisato se non addirittura posticcio.
Dunque se da una parte un certo ingombrante patrimonio cinefilo rende prigioniero il cinema di Andrea De Sica (un po’ come lo sono i ragazzi del suo collegio), da un’altra il suo “romanzo di deformazione” – come lo ha definito lo stesso regista – pare discendere verso una rotta di collisione troppo affrettata e autoconclusiva. In un’intervista durante le riprese del film Andrea De Sica aveva affermato che se avesse avuto la possibilità di chiedere al nonno Vittorio un consiglio per il suo primo lavoro, gli avrebbe voluto chiedere come ricondurre una potenziale “ macchina spettacolare” a qualcosa sia anche fonte di “verità” e di “emozione”. La sensazione è la macchina spettacolare c’è tutta, è potente e funziona. Ma le verità e le emozioni finiscono per arrivare amputate o non arrivare per niente.