L’esordio nel lungometraggio del regista newyorchese Michael O’Shea aveva già impressionato e stordito il pubblico dell’ultimo Festival di Cannes: nella sezione A Certain Regard, The Transfiguration aveva colpito tutti nello stomaco e aveva fatto male; non solo per l’efferatezza di alcune scene riportate senza filtro ma soprattutto per la capacità – crudissima – di raccontare il delirio insano di un’adolescente convinto di essere un vampiro.
Un ragazzo perduto
L’adolescente in questione è Milo (Eric Ruffin), un ragazzo di colore che, orfano dei genitori, vive insieme al fratello Lewis (Aaron Clifton Moten) in una palazzina nella periferia povera di New York. Fra le violenze dei bulli subite a scuola e le intimidazioni di una gang subite sotto casa, il ragazzo vive un’esistenza anonima e solitaria dietro alla quale si cela però un lato oscuro: Milo è infatti un vampiro, o meglio, crede di esserlo. Dopotutto è un accanito cultore della cinematografia del genere e ha perfino scritto un manuale per cacciare, uccidere e succhiare il sangue dal collo di potenziali vittime. Quello di Milo non si tratta però di un gioco o di una fantasia: almeno una volta al mese sente la pulsione di uscire di casa per compiere un omicidio rituale. E lo fa per davvero. Uccide, succhia il sangue delle persone che ha ucciso e poi si appropria del denaro delle vittime. Milo è un ragazzo perduto e alienato che si è rifugiato in una transfigurazione vampiresca a causa di una ferita profonda e mai risolta. Solo grazie all’incontro con Sophie (Chloe Levine) – una ragazzina bianca che viene ad abitare nel suo palazzo – emergerà per Milo un quadro psicologico compromesso e un trauma che sta alla base della sua folle convinzione.
Un unico terribile male
È un horror metropolitano in piena regola quello di Michael O’Shea, che cita qua e là l’immaginario mitico dei vampiri contaminandolo con il contesto sociale e le tensioni razziali dei quartieri poveri di New York. E’ anche un inno alla perdita dell’innocenza di un ragazzino e all’impossibilità di vivere la propria età: sia a causa del tormento che perseguita Milo trasformandolo in un mostro, sia perché il sobborgo nero – quello delle gang e dei riti d’iniziazione – fagocita ogni possibilità di un’adolescenza felice e spensierata. E’ un crocevia micidiale che travolge una vita normalizzata a osservare, subire e poi a sua volta generare brutalità. Non a caso tutto il film è intriso dal colore e dal sapore metallico del sangue, con la fotografia di Sung Rae Cho impegnata a inseguire quel realismo che ama vedere Milo nella cinematografia vampiresca. Per materializzare ancora di più un’atmosfera ferrigna e distaccata Michael O’Shea si limita ad una regia minimale, senza barocchismi, osservando i protagonisti muoversi sempre all’interno di un ambiente decadente e ai margini di una società dove l’orrore di un autoproclamatosi vampiro e la violenza razziale suburbana si fondono in un unico, terribile, male.
The transfiguration dunque sorprende, e lo fa come un Lasciami entrare attualizzato e con i piedi saldamente piantati nel terreno. E’ una visione disturbante basata su una favola amarissima, senza lieto fine o auto-assoluzioni di ogni sorta. Ma è anche uno sguardo sulla costante ed inesorabile vampirizzazione della società.