Parlare di mafia, sì, ma anche di persone comuni – normali timori, comprensibili dubbi – immerse nella vita di tutti i giorni, in una Palermo di fine anni ’70 non troppo diversa da ogni città d’Italia, forse del mondo. Parlare di mafia, sì, ma con un occhio di riguardo per le storie, per la commedia, per quel sorriso a volte agrodolce che fiorisce sul viso di chi si trova a convivere con un mostro spaventoso e violento, che ha però anche un lato stupido, rozzo, quasi comico. Parlare di mafia, sì, camminando sui passi già tracciati nel 2013 da Pif, al secolo Pierfrancesco Diliberto, ma lasciandosi andare ad un discorso più ampio, più lento, più sfaccettato. Con questi intenti La mafia uccide solo d’estate diventa una serie e sbarca sul piccolo schermo, e lo fa in grande stile, con un successo pressoché unanime di critica e pubblico, raccogliendo il 22% di share e coinvolgendo circa sei milioni di spettatori. Abbiamo raggiunto Luca Ribuoli, il regista della serie, reduce dal successo de L’Allieva, altra fiction targata RaiUno.
Luca, come è iniziata la tua avventura con La mafia uccide solo d’estate?
Tutto è cominciato lo scorso anno, mentre stavo postproducendo L’Allieva. Ho ricevuto una telefonata in cui mi si offriva la regia della serie tratta dal film di Pif e, avendo visto e apprezzato la storia al cinema, ho accettato. In realtà sapevo che già da qualche tempo si pensava ad una fiction, e in cuor mio speravo che questa proposta arrivasse proprio a me: avevo visto la possibilità di toccare una corda che avevo già sperimentato in altri lavori e che mi appartiene, ovvero la capacità di rendere con la commedia gli aspetti del mondo reale, che traspare nonostante il filtro. Mi piaceva l’idea di questa sfida – non solo palermitana ma italiana – di raccontare un mondo che sembra un microcosmo ma nasconde, in realtà, gli aspetti più macroscopici dell’Italia, nel bene e nel male. Ho preso a cuore questo progetto, mi sono divertito tantissimo e ho vissuto un’esperienza bella ed importante.
Tu sei alessandrino, la fiction è ambientata a Palermo. È stato complicato affrontare una realtà così diversa da quella in cui sei nato e cresciuto?
No, affatto. Pif temeva che mi sfuggissero alcuni aspetti, ma la fortuna di essere piemontesi, alessandrini in particolar modo, è anche quella di conoscere molto bene le realtà collegate all’emigrazione che da settant’anni interessa il Nord Italia. Sono nato nel quartiere Cristo, in Alessandria, e qui spesso si trasferivano le persone che si spostavano dal Meridione per cercare lavoro tra Torino, Genova e Milano. Ho conosciuto molte famiglie come quella della fiction, e lavorando a questa serie ho ritrovato, rispolverato e riscoperto la mentalità e i modi di dire che fin da bambino avevo attorno. Si tratta di persone comuni, che vogliono fare il bene e che si trovano faccia a faccia con la mafia o con un modo di pensare il potere che è comune un po’ in tutte le parti d’Italia, forse anche del mondo. Insomma, parlare di come una famiglia, nella Palermo del 1979, reagisca alla Mafia, non è troppo diverso da raccontare le medesime situazioni in una famiglia di Roma, di Torino, di Viterbo o di Alessandria, al giorno d’oggi: i nostri protagonisti non sono eroi, e vivono le indimidazioni, le scorciatoie e le minacce come ogni persona comune.
Un film che diventa serie avrà sicuramente dei cambiamenti…
Sì, certo. Una serie televisiva ha un suo ritmo, diverso da quello di un film, ma a fare la differenza è stata la possibilità di approfondire di più il discorso portato al cinema, che era di partenza molto ben fatto, e che ha permesso di dilatare i tempi scendendo in profondità. Si temeva che la suddivisione in episodi potesse far perdere il mordente, e che il risultato fosse meno incisivo del film: da questo punto di vista gli ottimi pareri di critica e pubblico hanno confermato a me e agli autori, in particolar modo Stefano Bises, di aver fatto bene e di essere andati “oltre” il film, creando un prodotto che dipendesse dall’originale nello spirito ma godesse di autonomia nella forma e nei contenuti.
Anche il cast si è rivelato una scelta azzeccata…
Sì, e ne sono davvero felice. Ho avuto grande fiducia da parte di Wildside, Rai e Pif nella scelta dei personaggi, interpretati da ottimi attori, veri e credibili. Da questo punto di vista devo ammettere che, per fortuna, negli ultimi anni ho assistito ad una rivoluzione, dal punto di vista della Rai: era molto difficile, fino a poco tempo fa, immaginare una così grande libertà nella costruzione di un cast. Probabilmente la competitività ha fatto crescere la Rai, che ha dimostrato di essere pronta ad una gara – sia nel mercato interno che internazionale – che richiede standard di un certo livello. Lo si vede nel linguaggio, nella sigla, nelle cose raccontate e nel modo in cui vengono raccontate: la fortuna di aver avuto fiducia dalla produzione e carta bianca da Pif è stata una vittoria.
Parliamo di Pif: come è stato il rapporto con lui?
Per una serie di circostanze, legate alla realizzazione del suo nuovo film “In guerra per amore”, Pif è stato molto impegnato per gran parte delle riprese. Da parte sua, però, ho avuto come dicevo prima carta bianca e ampio margine di manovra. Ha conosciuto il cast, all’indomani delle selezioni, e ha inizialmente avuto alcune perplessità su qualche attore. Io ho deciso di tirar dritto sulle mie convinzioni, certo di avere individuato le persone adatte a rendere i personaggi della serie. E alla fine mi ha dato ragione.
Nessuna “gelosia”, nei confronti della creatura che veniva trasformata da film a serie?
Credo che ogni regista sia “geloso”, se così si può dire, della propria opera. Però da quel punto di vista è stato un vero signore: ha capito dall’approccio che i miei intenti erano buoni e che avevo sposato appieno la causa. Insomma, eravamo sulla stessa lunghezza d’onda e si poteva raggiungere un pubblico più ampio di quello che aveva già conosciuto la storia sul grande schermo: gli oltre sei milioni di telespettatori ci hanno dato ragione. Il nostro obiettivo era portare nelle case degli italiani una storia con cui si ridicolizzasse la mafia, senza esaltarla, guardandola dagli occhi di persone comuni che di fronte al terrore e alla paura non sempre riescono ad essere degli eroi. Del resto parliamo di fatti di cronaca violenta, di una mafia che è spietata, quella dell’epoca di Riina, di Provenzano, di Bagarella. I protagonisti, così, parlano ad un pubblico ampio, fatto di chi non sempre ha il coraggio e a volte non se lo riesce a dare, e che di fronte alla mafia si spaventa, scappa, pensa.
La mafia, nella vostra fiction, assume una piega quasi comica.
Ci si è interrogati tanto se film e serie come Il Padrino, Romanzo criminale, Gomorra o Narcos potessero alimentare il “mito” del malavitoso. Non so rispondere a questa domanda, né voglio farlo, perché la questione è spinosa e vasta. Però si sa che alcuni mafiosi, alcuni ragazzotti arrestati, avevano nelle tasche immagini di icone che rappresentavano questi mondi, in cui probabilmente si rivedevano. Ecco, questo ne “La mafia uccide solo d’estate” non c’è: il mafioso, quando si vede, è talmente imbecille che vien difficile pensare che qualcuno possa volerlo imitare…