Tutto si può dire del cinema di Ben Weathley tranne che sia ripetitivo e uguale a se stesso. Dal suo esordio da regista di lungometraggi sono passati sette anni nei quali ha realizzato ben sei film (sette se consideriamo l’episodio diretto nel film collettivo The ABCs of Death) e nessuno assomiglia all’altro: da uno dei più disturbanti horror dell’ultimo decennio (Kill List) è passato a dirigere un film in costume (I disertori – A field in England), da High Rise, ambiosizzima trasposizione sul grande schermo de Il condominio di J. G. Ballard, fino a questo Free Fire, presentato in anteprima qui a Torino per la sezione Festa Mobile, in cui il regista britannico vira imprevedibilmente in uno dei ganster-movie più dissacranti e liberatori mai visti al cinema.
La pioggia di fuoco
Due bande di criminali si incontrano una fabbrica dismessa per uno scambio fra soldi e armi: sono personaggi bizzarri, per lo più ottusi, ma ognuno è una pedina in una scacchiera che è destinata a esplodere. Qualcosa va storto e una scintilla innesca una pioggia di piombo fra gli opposti schieramenti senza che nessuno prevalga immediatamente sull’altro e generando una serie di situazioni comiche nelle quali i caratteri dei personaggi emergono nella più totale ironia. Uno scenario corale dunque, nel cui cast troviamo, fra gli altri, oltre a Cillian Murphy e Brie Larson (Oscar per Room), anche dei bravissimi Arnie Hammer e Sam Riley.
Una ganster-comedy
Sarà che dopo quell’enorme lavoro intellettuale di High Rise, in cui esplorava territori distopici mirando a emulare il Terry Gilliam di Brazil, Ben Weathley aveva bisogno di liberarsi da voli pindarici e di dare sfogo a un cinema più giocoso, a un intermezzo di pura godibilità stilistica e registica. In questo senso Free Fire funziona alla perfezione: è senza alcun dubbio una delle sparatorie più lunghe ed estenuanti della storia del cinema dove nessuno dei personaggi coinvolti viene colpito a morte ma, ferita dopo ferita, si trascina, sputa sangue e continua a esplodere pallottole per una buona ora e passa di film. Ben Weathley si diverte come un matto a imbastire una “guerra di posizione” fra le due trincee (a cui se ne aggiungerà un’altra, a sorpresa) rendendo lo scontro a fuoco irriverente e scanzonato: a un colpo sparato segue una gag mentre le pallottole colpiscono e graffiano nastrine di giacche e i fondoschiena dei personaggi, tanto che a tratti si può addirittura parlare di una gangster-comedy con i proiettili che fungono da veri e propri meccanismi slapstick. Più che iene tarantiniane i personaggi di Free Fire sembrano i gatti e i topi della Warner Bros armati di pistola.
Un omaggio agli anni ‘70
Tarantino, dicevamo: se l’ambientazione claustrofobica mixata al ferro e fuoco ricorda Le Iene, quello di Ben Weathley in realtà sembra più un omaggio alle sparatorie dei film anni ‘70 (Assault on Precinct 13 e Il colpo della metropolitana, per dirne due) e non a caso costumi e colonna sonora (le canzoni di John Denver) fanno pensare proprio a quell’immaginario. Con la differenza che Weathley dà libero sfogo a una regia a 360 gradi capace di capovolgere movimenti, punti di vista e inquadrature. Alla scomparsa disorientante dei confini fra campo e controcampo si aggiunge un montaggio veloce e serrato che fa schizzare la narrazione filmica a dei ritmi attraverso i quali spesso risulta difficile decifrare chi sta sparando a chi: è una vera e propria immersione totale nel caos, nel quale anche il pubblico in sala finisce per percepirsi coinvolto e messo in mezzo ai due litiganti. La ciliegina sulla torta è il grandissimo lavoro al sound design di quel mago che è Martin Pavey e che riesce a materializzare le traiettorie sonore dei proiettili, rendendole le uniche tracce possibili per orientarsi nel disordine visivo creato da Weathley.
In definitiva Free Fire è un esageratissimo divertissement dove si ride sparando. E’ la conferma che Ben Weathley riesce ormai ad adattarsi ad ogni genere filmico grazie ad una padronanza totale della macchina da presa e a una cultura cinematografica con cui gioca ed ammicca allo spettatore. Anche nel disimpegno più totale.