Il genio di Xavier Dolan è incontenibile: ex enfant prodige, il regista, attore, sceneggiatore e doppiatore canadese a ventisette anni vanta un palmarès che la maggior parte dei registi con il triplo dei suoi anni si sogna.
Dietro a tanto successo ci sono il coraggio di affrontare temi universali ma ad alto rischio di banalizzazione (la famiglia, la malattia e l’omosessualità, che sono i temi su cui Ozpetek ha costruito alcune delle pellicole più qualunquiste degli ultimi anni) unito al talento per farlo con un linguaggio personalissimo e un’intensità rara e meravigliosa.
È solo la fine del mondo (Juste la fin du monde), gran prix speciale della giuria a Cannes e candidato canadese agli Oscar, arriva ora nelle nostre sale e non fa che confermare quanto sin qui visto, consegnandoci una storia tanto banale quanto capace di trascinare lo spettatore in un turbinio di emozioni che lo terrà incollato alla poltrona per i 95 minuti di durata.
Louis (un superlativo Gaspard Ulliel, già protagonista in Hannibal Lecter – Le Origini del Male) è uno scrittore di successo che, dopo essersi trasferito in America, ha progressivamente ridotto all’osso le interazioni con la famiglia, tanto da non aver più visto i parenti per dodici anni. Ora però Louis sta morendo, e i suoi non ne sanno nulla. Decide quindi di tornare a trovarli per comunicare di persona la drammatica notizia, ma una volta in famiglia viene immediatamente assalito dalle stesse problematiche che aveva voluto lasciarsi alle spalle anni prima, e che ancora imprigionano le vite dell’affettuosa madre (Nathalie Baye), della sorella desiderosa di libertà (Léa Seydoux), del fratello aggressivo e represso (Vincent Cassel) e della cognata sottomessa (Marion Cotillard). Quella di comunicare la sua prossima morte diventa l’ultima delle priorità.
Lo script, firmato sempre da Dolan, è la trasposizione dell’omonima pièce teatrale di Jean-Luc Lagarce (con tutte le sue volute e numerose imperfezioni linguistiche) e ci restituisce una rete di emozioni contrastanti e dinamiche viziose che immobilizza le vite dei protagonisti e al compenso fa prendere il volo alle memorabili interpretazioni di un cast straordinario (e straordinariamente diretto). L’atmosfera è tipicamente Dolaniana, ma nel susseguirsi di piani sempre più stretti non è tanto un senso di claustrofobia a prevalere ma un’esplosiva e problematica intimità.
La camera di Dolan è interessata ai dettagli, anche quelli più inaspettati, in un modo che trasforma la distrazione dello sguardo del protagonista in riflessione, che ci trascina continuamente dalle azioni del presente a un’estraniazione amorevole. Il regista si insinua tanto profondamente sul set da imbattersi e ricercare continuamente oggetti fuori fuoco che impallano la scena, e così l’uso dell’out of focus diventa un espediente per ammorbidire l’immagine, complice il riverbero della luce naturale delle finestre. I colori eleganti di André Turpin, ancora una volta direttore della fotografia per Dolan, si dividono tra ombre virate al blu e luci virate al giallo, con uno split toning d’effetto ma mai artificioso, mentre la creatività vorace del cineasta canadese inonda a tratti la scena di luce rossa o ambrata, con una funzione esplicitamente teatrale e con la stessa forza ritmica con cui alterna al commovente commento musicale di Gabriel Yared brani pop che mai ci aspetteremmo in un film d’autore. La musica che pervade l’ambiente non è però solo quella delle note, ma anche quella della vita: il ticchettio degli orologi, i passi sulle assi di legno, i cinguettii fuori dalla finestra e i piatti sbattuti vanno a comporre un repertorio di rumori casalinghi che pervade a tratti i dialoghi, come a rafforzare l’identità tra l’istituzione sociale della famiglia e la casa, nido in cui si svolge la maggior parte della narrazione.
In conclusione È solo la fine del mondo è una pellicola piena d’amore eppure spietata, in cui la famiglia è una trappola che immobilizza le ambizioni dei singoli ma che al contempo esercita un richiamo irresistibile su un’umanità di individualità smarrite.
Dolan non solo ha fatto centro, ma ci ha regalato uno dei più bei film dell’anno, un capolavoro assolutamente imperdibile. A 27 anni il canadese ha già dato al cinema più di quanto non sarebbe stato lecito chiedergli, ma a questo punto vogliamo vederlo esplorare nuove tematiche, e il debutto americano con The Death and Life of John F. Donovan (la storia di una star di Hollywood che si riconosce in un attore undicenne con cui entra in competizione, in arrivo nel 2017) sembra proprio quel che stiamo aspettando. Intanto correte in sala a vedere quest’opera straordinaria, distribuita da Lucky Red.
È solo la fine del mondo: la recensione in anteprima (no spoiler)
Il genio di Xavier Dolan ci regala uno dei più bei film dell'anno, una riflessione sulla famiglia con un cast d'eccezione.