Puntuale come un colpo ben assestato di Lucille siamo arrivati al midseason della settima stagione di The Walking Dead. Ci siamo arrivati col lutto al braccio, stanchi, arrancando in silenzio, con emozioni che oscillano tra il desiderio di vendetta e la rassegnazione.
Siamo abituati a uno show che procede a singhiozzi, una puntata forte ogni due o tre episodi più meditati (o come dicono i più critici di riempitivo), qualcuno di noi ancora si aspetta un flashback sul Governatore (bei tempi quelli), ed è esattamente quello che è successo anche adesso, in queste otto puntate. Dopo un primo episodio pazzesco di cui non è più necessario continuare a tessere le lodi, Kirkman, Nicotero & Co. hanno scelto di rallentare, ma hanno le loro ragioni. Innanzitutto per aiutarci a superare la perdita di Glenn e Abraham hanno scelto di non mostrarci Negan fino alla quarta puntata. In secondo luogo, ci stanno mostrando un mondo che si è allargato di tanto rispetto al primo accampamento di Atlanta, vicino alla diga, in prima stagione. Il Regno, Hilltop, Alexandria e tutta la terra colonizzata dai Salvatori coprono tanti chilometri quadrati e, di conseguenza, offrono tanti personaggi, storici e non, per la cui tridimensionalità a volte si deve sacrificare il minutaggio delle linee principali.
Chi segue The Walking Dead con devozione non vede l’ora di conoscere la sorte di Carol, e sbuffa quando ci si ritrova di fronte a un’intera puntata dedicata a Tara. Ma vorrei ricordare a tutti che quando i nostri, alla spicciolata, raggiungevano Terminus, non eravamo ancora così affezionati al sergente Abraham Ford. (Lacrime).
E poi c’è Negan. Un antagonista così complicato, così ingombrante, che necessariamente ruba la scena a molti dei personaggi a cui siamo affezionati, in certi casi anche allo stesso Rick.
Certo, non tutte le buone intenzioni però si trasformano in scelte azzeccate, e se la settima e l’ottava puntata sono tra le migliori di questo primo blocco ci sono comunque almeno dieci minuti di plot che potevano essere evitati, perché ripetitivi e, almeno apparentemente, inutili.
Due lezioni però gli autori le hanno imparate: Rick inerte per troppo tempo fa distogliere l’attenzione, molti spettatori hanno abbandonato lo show in quarta stagione, nel lunghissimo svarione che lo sceriffo ha avuto dopo la morte di Lori. In questo caso Rick mostra già delle avvisaglie da combattente, il che fa ben sperare ma, ahinoi, ci fa anche subodorare altri guai all’orizzonte.
E poi c’è il cliffhanger. Il finale della sesta stagione ha scatenato l’ira di chiunque ma lasciare gli spettatori in levare era una sorta di marchio di fabbrica per The Walking Dead. Questa volta la pausa di midseason comincia con un timidissimo sospiro di sollievo, perché da quel che abbiamo visto poteva decisamente andare peggio. Le regole sono cambiate, per gli abitanti di Alexandria come per noi spettatori. L’arrivo di Negan ha messo in ginocchio i combattenti e ha dato vigore ai remissivi. Se prima c’era una regola sottile che decideva della vita e della morte delle persone (di vaganti moriva chi non voleva combattere, come Dale o Andrea, mentre per mano degli uomini moriva chi era pronto a sacrificarsi, come Hershell o Beth) adesso pare che sia stato calato l’asso dell’irrazionalità; ogni volta che Negan sfiora Lucille perdiamo un battito. Questo però non vuol dire che vale tutto. Negan si comporta secondo regole al contempo folli e lucide. Sa benissimo che i combattenti in ginocchio e i remissivi rinvigoriti non gli servono a un granché, e quello che deve fare per mandare avanti il suo perverso meccanismo è tenere sotto scacco i soldati, minacciandone gli affetti. Ma per quanto tempo potrà durare?
The Walking Dead tornerà il 12 febbraio sulla AMC e il 13 febbraio su Fox. Si accettano scommesse: dopo due mesi di attesa andremo avanti con le storyline principali o ci beccheremo un altro flashback su Morgan?
The Walking Dead: la recensione del mid-season finale
Si chiude la prima metà di una settima stagione svoltasi all'ombra di Negan. Il nostro bilancio.