Provare a dare un giudizio definitivo sulla prima stagione di Westworld è prematuro, e questo nonostante un finale che si è rivelato all’altezza delle aspettative soddisfacendo la maggior parte delle domande che nei primi nove episodi avevano alimentato dibattiti online e offline. Ma la natura labirintica della narrazione ideata da Jonathan Nolan e Lisa Joy fa di questa serie un’opera unica nel suo genere, che necessita per forza di di cose nuovi visioni (o nuovi loop, se preferite) accompagnate da riflessioni più approfondite, articolate e stratificate. Westworld ha lasciato un segno perché in realtà ne ha lasciati tanti, e alcuni ancora da sviluppare. E proprio per la molteplicità di frammenti che ha esploso, preparare la seconda stagione diventerà una delle operazioni più difficili di sempre, tanto che i produttori si sono presi i tempi necessari per realizzarla (della sua uscita se ne parla non prima del 2018).
Una serie da decifrare
Nel frattempo potremmo spendere elogi per tutto quello che ci ha regalato questa prima stagione in termini di narrazione corale. Il Parco a tema di Westworld – dove i robot (gli ospiti) intrattengono i visitatori e le loro pulsioni sadiche – è stato attraversato da almeno una decina di protagonisti che hanno intrattenuto il pubblico in altrettante trame e sottotrame: una vera e propria meta-serie televisiva che produce sè stessa (al tempo stesso scena e set) e in cui l’intreccio di spazi temporali e fisici hanno richiesto uno sforzo maggiore rispetto a quello che si richiede solitamente a uno spettatore. In fondo l’intento degli autori è stato proprio quello di aver tenuto i fruitori della serie sullo stesso piano delle attrazioni del Parco, confondendo il pubblico con gli stessi codici mentali in cui sono perduti gli ospiti: i ricordi del passato e quelli del presente, le voci interiori e quelle esteriori, le realtà immaginate e quelle vissute. Più che una serie che va vista, Westworld va dunque letta e decifrata, senza fare a meno però di godere di quelle citazioni piacevolissime che vengono inserite qua e là (pensiamo alle musiche rifatte al piano del saloon) e a tutte le sfumature offerte da un cast eccezionale: da Ed Harris a Evan Rachel Woods, arrivando fino ad un Anthony Hopkins che ha saputo dare splendidamente anima e corpo a un personaggio mitologico come il Dottor Ford, metà costruttore di macchine (Henry), metà creatore di storie Western (John).
Il racconto dilatato
Ma ciò che ha reso veramente Westworld un successo immediato e globale, proclamata da molti come una delle serie dell’anno (e già degli anni a venire) è la capacità di restituire fascino alla serialità tradizionale, quella insomma messa in crisi dal “modello Netflix” e dal “tutto e subito” che restringe i tempi di riflessione a causa di visioni ravvicinate. Al contrario l’impianto narrativo di Westworld si sposa tradizionalmente con visioni intervallate, mai continue. Un meccanismo che HBO già aveva aveva testato con successo grazie alla prima stagione di True Detective. In entrambi i casi il racconto di una serie si dilata nelle sue conversazioni, soprattutto attraverso i forum online di Reddit e nei gruppi fandom, restituendo ciò che alla serialità ci era tanto cara fin dai tempi di Twin Peaks o di Lost: la discussione su quello che sta succedendo. Il labirinto di Westworld in cui siamo noi i primi ospiti non avrebbe potuto sopravvivere altrimenti e la potenzialità di espandere il suo immaginario oltre la visione televisiva ne fa una delle serie più discusse online di tutti i tempi.
Siamo tutti filosofi
Se però con True Detective imparavamo ad essere tutti investigatori e ad analizzare indizi e tracce che consapevolmente erano disseminate qua e là da Nic Pizzolatto, con Westworld impariamo ad essere tutti filosofi. La serie è piena zeppa di immaginari che indagano strutture mentali, morali ed etiche della realtà: il significato della coscienza di sé; la dualità della natura umana simbolicamente rappresentata nel contrasto fra il bianco e il nero; i robot, gli zombie la distopia in generale; il libero arbitrio e il vero significato della libertà; il rapporto fra i tecnici del Parco e i suoi ospiti; il concetto di memoria reale e quello di memoria artificiale; la questione etica nell’uccidere un’attrazione per un piacere squisitamente umano; il significato di sogno e di sogno ad occhi aperti; la finitezza della vita umana e la sua resurrezione; l’immortalità dell’arte e delle composizioni musicali nella serie. E via dicendo. Se ci pensiamo bene è quasi impossibile pensare di aver toccato, in soli dieci episodi, una serie di tematiche così vaste e ambiziose. Eppure l’abbiamo fatto, rivedendo in Westworld anche proiezioni del nostro quotidiano personale e pubblico: le umiliazioni e gli abusi sui corpi nudi che ricordano la prigioni di Abu Ghraib, la natura violenta del cyberbullismo, le conseguenze del racconto fake nell’epoca post-truth fino alla ribellione dei governati contro i governanti. Westworld sa raccontare il presente più di tanti altri e lo fa da una parte masticando metafisica e filosofia, e dall’altra rendendo necessarie riverberazioni di quello che abbiamo visto. Ma sorprende anche per essere, come in contraddizione con se stesso, un prodotto sci-fi che incarna in modo disincantato gli archetipi del passato. Tanto che la serie ha contribuito a riscoprire studiosi quasi archiviati dal mondo accademico e uno dei più citati in giro è lo psicologo Julyan Janes che con il suo saggio Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza aveva analizzato l’Iliade di Omero e sembra aver ispirato più di altri Jonathan Nolan per raccontare la caduta degli umanissimi Dei di Westworld e la genesi dell’autocoscienza nei suoi robot (La mente bicamerale è proprio il titolo dell’ultima puntata).
Dopotutto non ci sono vie di fuga semplicistiche all’universo costruito da Westworld: non stiamo parlando di Matrix o di Terminator, in cui la scorciatoia dell’apocalisse robotica è sempre dietro l’angolo. Partendo invece da presupposti che a tutti facevano pensare a un dejavù, sia in termini di contenuto (macchine contro uomini) che di contenitore (il genere western), Westworld arriva a finalizzare il tutto in modo affatto scontato e atteso. Perché alla fine ciò che ci sa comunicare (o non comunicare) è l’impossibilità di risolvere dubbi esistenziali, umani o cibernetici essi siano, rendendo quasi vane le nostre elucubrazioni (o speranze) e riconducendo tutto ad un gioco, a un labirinto senza uscita che in fondo riguarda tutti: ospiti, visitatori e padroni. L’antagonismo finale che abbiamo visto nell’ultima puntata, accompagnato da Exit music (for a film) dei Radiohead (stessa chiusura musicale di un episodio dell’ultima stagione di Black Mirroir) non è un conflitto risolutore, ma costituente, il prezzo da pagare per aver raggiunto un nuovo equilibrio nel quale non esistono più simulacri in cui rifugiarsi. E’ la fine delle illusioni e quindi è anche un nuovo inizio: il confronto fra ospiti e visitatori smette di essere trascendentale, astratto e metaforico e diventa materiale, corporeo e reale. In una sola parola: politico.