L’abominevole sposa, andato in onda il 1 gennaio 2016 nel Regno Unito e il 12 gennaio in Italia, fu una potentissima dose per tutti coloro che erano in astinenza di una delle migliori serie firmate BBC. Sherlock, però, ora è tornato davvero e, nonostante qualche difetto di percorso, non delude l’attesa. La serie che vede protagonista il candidato premio Oscar Benedict Cumberbartch nei panni del famoso detective di Baker Street, calato nel XXI secolo tra Twitter e Blog, continua a raccogliere consensi e nuovi affezionati, e se gli spettatori seriali di oggi sono abituati ormai ad attendere mesi per vedere nuove stagioni di prodotti cult, è anche vero che Sherlock si è fatto attendere per tre lunghissimi anni. Né questo è bastato per distogliere l’attenzione. Il motivo è facilmente rintracciabile: si tratta di grande, grandissima televisione. In un campo ormai dominato da grandi prodotti ad altissimo budget e effetti speciali da far invidia al cinema (Game of Thrones e Westworld della HBO sono probabilmente i simboli della nuova serialità televisiva di questo tipo), una sceneggiatura ben scritta e interpretazioni magistrali, restano comunque gli elementi dominatori. Così i creatori Steven Moffat e Mark Gatiss (sceneggiatore ma anche interprete di Mycroft nella serie), appassionati delle storie di Sherlock Holmes, e non estranei all’adattamento di altre opere vittoriane, hanno creato la loro fortuna riadattando il mondo di Sir Arthur Conan Doyle, senza però tradire le caratteristiche dei personaggi, unendo magistralmente la tradizione dei grandi classici inglesi alle accattivanti modalità narrative del nostro tempo.
La prima puntata della quarta stagione di Sherlock, The Six Thatchers, è un liberissimo adattamento del racconto The Six Napoleons pubblicato da Doyle nel 1904 sullo Strand Magazine. Il filo conduttore tra l’originale e quello della serie restano i sei busti di gesso, che questa volta ritraggono il volto di Margareth Thatcher, rinvenuti distrutti in alcune case. Lo Sherlock di Cumberbatch, richiamato sulla terraferma alla fine della terza stagione subito dopo il suo esilio per l’omicidio del criminale Charles Magnussen, è convinto che dietro a tutto questo ci sia il presunto ritorno del Professor Moriarty. L’ombra minacciosa e sempre presente della sua nemesi lo rende ancor più calcolatore, tanto da offuscare le sue intuizioni e rendere più difficile la protezione di John Watson (Martin Freeman) e di sua moglie Mary (Amanda Abbington).
Mentre la solita colonna sonora ci fa entrare di nuovo nell’atmosfera della serie a cui siamo tanto affezionati, la sceneggiatura di questa prima puntata fatica ad essere compresa alla prima visione. Questo è sicuramente il difetto più tangibile: troppa carne al fuoco, troppo fumo davanti agli occhi. Se finalmente la storia ci regala preziosi elementi, come il passato di Mary, la nascita della piccola Rosie e un’immersione totale nella testa di Sherlock, tuttavia il materiale è gestito in maniera troppo confusionaria. Forse, a pensarci bene, è un intento voluto dagli sceneggiatori che per l’occasione hanno creato una struttura a spirale che sul finale stringe a tal punto da togliere il fiato, ma soprattutto l’orientamento. Chi è appassionato delle storie originali di Sherlock Holmes, conosce già alcuni dettagli preziosi della storia dei personaggi principali: per questo, forse, Moffat e Gatiss, che nonostante lo spostamento dell’azione nell’era moderna sono rimasti bene o male sempre fedeli al canone originale, hanno voluto contenere l’ossigeno e disorientare lo spettatore che potenzialmente sapeva già cosa sarebbe successo.
Sul bilanciere non possiamo poi non mettere l’interpretazione di Benedict Cumberbatch, sempre nei panni di Sherlock. Da una parte più emotivo e affezionato ai suoi amici, soprattutto per la nascita della figlia di Watson e Mary, dall’altra molto più calcolatore, egocentrico, totalmente immerso nel suo “palazzo mentale”. Sono le sue azioni e i suoi pensieri a guidarci durante tutta la puntata, indirizzando la nostra attenzione su punti sbagliati, dettagli errati, intuizioni precoci. Mai, come in The Six Thatcher, siamo stati tanto immersi nel suo personaggio, tanto a contatto con le sue emozioni e i suoi ragionamenti, tanto empatici con uno Sherlock così ferito e impotente.
Mentre scopriamo nuovi lati di John Watson, che si evolve dal suo ruolo di aiutante senza però declassarsi esclusivamente a padre e marito, Mary è il personaggio che più risente di una trama confusionaria. Nonostante la puntata ci regali i succulenti dettagli del suo passato, la sua story-line si evolve troppo in fretta senza però farla uscire dai binari del ruolo di moglie e madre che la sceneggiatura le ha cucito addosso. Se per un momento esce da questa parte per entrare in quella di un secondo aiutante di Sherlock Holmes, tuttavia non arriva a un reale approfondimento, in grado di colmare quei piccoli vuoti emotivi che la puntata lascia.
Il finale della puntata probabilmente necessitava di un rilascio di informazioni più graduale, evitando così il sovraccarico di ragionamenti e promuovendo la liberazione di forti emozioni. Ma resta innegabile che quello de Le Sei Thatcher sia l’epilogo più coraggioso fino ad ora, in grado di rivelare nuove linee narrative, di legare l’evoluzione del rapporto tra Sherlock e Watson al ritorno (reale o meno) di Moriarty fino all’arrivo del nuovo villain interpretato da Toby Jones.
L’interpretazione degli attori, una costruzione narrativa sempre più complessa e accorta, la presenza di azione e combattimenti da cardiopalma, rendono il prologo di questa quarta stagione coraggioso e per nulla scontato. Il gioco è definitivamente cominciato.