Martin Scorsese non è certo nuovo ai temi religiosi, e il suo straordinario e sottovalutato L’ultima tentazione di Cristo (un provocatorio capolavoro con Willem Dafoe nei panni di Cristo, Harvey Keitel in quelli di Giuda, David Bowie in quelli di Pilato e con le musiche di Peter Gabriel) è diventato un esempio di quanto anche una parabola cristologica possa esser riletta con grandissimo coraggio e spirito critico, mettendo in discussione noi come le nostre certezze.
Per il suo ritorno sul tema con Silence quindi le aspettative erano particolarmente alte, considerato che si tratta del ‘film di una vita’; un progetto cui il regista italoamericano lavora da 28 anni, da quando cioè nel 1988 l’arcivescovo Paul Moore gli regalò e raccomandò una copia del romanzo Silence proprio durante una speciale proiezione stampa di L’ultima tentazione di Cristo.
LA TRAMA
Silence è scritto da Scorsese – la cui ultima sceneggiatura per il cinema risaliva al 1995 – con Jay Cocks e ripropone quasi pedissequamente le vicende narrate nell’omonimo libro di Shusako Endo (titolo originale Chinmoku). Nel Portogallo del 1642 l’ordine dei Gesuiti invia i giovani padres Rodrigues (Andrew Garfield) e Garupe (Adam Driver) in Giappone, a verificare se il loro mentore Padre Ferreira (Liam Neeson) abbia veramente fatto apostasia come si dice. Da subito la ricerca di Padre Ferreira si rivelerà tutt’altro che facile – tanto che lo vedremo solo nel prologo e in chiusura della storia – e la vera missione dei due si rivelerà quella di non rinnegare la fede mentre si ritroveranno a dare sostegno ai contadini nipponici (inspiegabilmente tutti cattolici e abilissimi nella lingua portoghese), vessati dalla minaccia delle disumane torture dell’inquisizione ‘buddista’ capitanata da Inoue Masahige (uno straordinario Issei Ogata, già visto ne Il Sole di Aleksandr Sokurov).
IL FILM PIÙ BELLO DI SCORSESE
Su una cosa non ci sono dubbi: Silence è il film esteticamente più straordinario di tutta la carriera di Scorsese. La fotografia nebbiosa e desaturata di Rodrigo Prieto, che era già con Scorsese in The wolf of Wall Street, trae il meglio dalla tecnica di ripresa mista (Arri Alexa per il digitale e Arricam LT per il 35mm) e ci consegna un immaginario naturale imponente e meditativo, capace di offrirsi come la tela perfetta per i lunghi silenzi che caratterizzano la pellicola. La composizione dell’inquadratura, sempre ordinatamente asimmetrica, sembra voler sottolineare il divario tra l’ostilità del contesto e l’intimità della fede dei protagonisti, alternando i campi lunghi che ci raccontano montagne, campi e scogliere a primissimi piani il cui compito è restituirci l’emotività del dubbio e della paura (più raccontati che mostrati). Gli straordinari consunti costumi del nostro Dante Ferretti, insieme alle scenografie scarne e infrequenti da lui realizzate con la grande Francesca Lo Schiavo, sono il completamento ideale di questo mondo narrativo.
TRE LUNGHISSIME ORE CON UN GRANDE CAST E UN PESSIMO PROTAGONISTA
Se l’elemento visivo della pellicola funziona meravigliosamente, altrettanto non si può dire per altri aspetti della realizzazione filmica, il più evidente dei quali è la volutamente esasperata lentezza del ritmo narrativo. La scelta di lasciar ‘respirare’ per un tempo interminabile ogni scena è certamente frutto di una volontà artistica intrisa di misticismo, ma il montaggio di Thelma Schoonmaker (da sempre al fianco di Scorsese) e la direzione impartitale dalla regia ci consegnano una pellicola di difficilissima digeribilità, che nell’arco dei suoi lunghissimi 161 minuti soffre di una superflua e a tratti sgradevole ripetitività (si pensi al quasi caricaturale personaggio di Kichijiro, le cui continue reiterazioni finiscono per diventare prevedibilissime e quasi ridicole). E pensare che proprio con L’ultima tentazione di Cristo Scorsese ci aveva mostrato come si possa confezionare un film sulla fede dal ritmo perfetto.
Per quanto poi concerne le performance attoriali, va detto che se Liam Neeson funziona benissimo (nonostante si veda appena sullo schermo) e Adam Driver è perfetto come sempre, altrettanto non si può dire per il protagonista che ci accompagna per tutta la lunghezza del racconto: infatti Andrew Garfield, sempre perfettino e cotonato, mostra una dinamica emotiva assolutamente insufficiente a rendere quella che vorrebbe essere la complessità del suo personaggio e a tratti sembra si ritrovi sul set per puro caso, senza avere idea di cosa passi per la testa del suo character. I danni conseguenti a una scelta di casting tanto sbagliata non possono esser contenuti nemmeno dall’altissimo livello delle interpretazioni del cast giapponese, che oltre allo spietato villain dentuto e sornione di Ogata – unico guizzo di fantasia di un lavoro terribilmente didascalico – ci regala l’intelligente mediazione di Tadanobu Asano, l’iconico ‘folle’ à la Kurosawa di Yôsuke Kubozuka, e i credibilissimi ‘ultimi’ di Yoshi Oida e Shin’ya Tsukamoto.
L’INACCETTABILE SCELTA PROPAGANDISTICA DI RISCRIVERE LA STORIA
Fin qui non abbiamo però discusso dell’aspetto in assoluto meno riuscito di Silence: lo script. Affrontare il tema della fede nel 2016 potrebbe essere un atto tanto coraggioso quanto rivoluzionario: con un occidente che è arido di ogni spiritualismo eppure costantemente minacciato dall’incrollabile fede che anima la ‘crociata’ (mai termine fu più significativo) islamista, una pellicola del genere avrebbe potuto rappresentare una straordinaria opportunità di riflessione; ma ci ritroviamo invece con una gigantesca opportunità sprecata. A dispetto di tante possibilità, Scorsese (evidentemente arrugginito come autore) e il non particolarmente prolifico Cocks si limitano a trascrivere pigramente in immagini un libro del 1966, paradossalmente senza alcuno sforzo di attualizzazione o modernizzazione, come se in cinquant’anni il mondo non fosse cambiato di pezzo. C’è poi da dire che tanto nel libro quanto nel film i toni sono indecorosamente propagandistici, e mentre si racconta di un cattolicesimo puro e santo vessato dal torturatore giapponese, ci si dimentica totalmente che proprio in quegli anni la temibile inquisizione spagnola stava vivendo un vertiginoso aumento dei ‘processi’ (la cosiddetta Rinascita) e quella portoghese estorceva confessioni e abiure tramite la tortura proprio come facevano i Giapponesi. Qui infatti non si fa menzione del potere temporale del Cattolicesimo e di questioni geopolitiche, e i nostri padres sembrano candide contadinelle incapaci di spiegarsi la persecuzione nella terra del Sol Levante: l’unica cosa che interessa ai Cattolici è la verità, come sottolinea più volte Padre Rodrigues. Storicamente inoppugnabile.
Se poi volessimo perdonare l’indigeribile cecità religiosa di Scorsese e concentrarci solo sull’aspetto tecnico, dovremmo comunque segnalare la tediosissima scelta di affidare la quasi totalità della vicenda alla voce narrante del protagonista, con un risultato che – se non ci fosse stato in ballo l’intoccabile Scorsese – la maggior parte della critica non avrebbe perdonato neanche al più inesperto dei videomaker.
SCELTE KITSCH SUSCITANO RISATE NON VOLUTE
Ad adombrare poi ogni pregio della pellicola (e come abbiamo detto ce ne sono molti), ci sono delle scelte che definire kitsch è riduttivo. Tra queste, spicca quella di mostrare in un ruscello il riflesso del volto di Garfield che si trasforma in quello di Cristo: un momento inaccettabile tanto per la grossolanità dell’espediente narrativo, che mostra pigramente quel che si sarebbe potuto suggerire con molta più eleganza, quanto per una penosa realizzazione tecnica, che si fonda su un’illuminazione che sarebbe incoerente anche in un cartone in CGI (la celebre scena di Derek Zoolander che si rispecchia in una pozzanghera è girata meglio). Tale momento non è però il meno riuscito del film, così come non lo sono le riproposizioni macchiettistiche delle richieste di perdono di Kichijiro o il finale retorico e prevedibilissimo: il primato spetta infatti all’inspiegabile scelta di affossare ogni pallido sforzo di profondità e far parlare, con voce calda e sicura, un’icona del Cristo. Al “trample on me” pronunciato dalla voce fuori campo di Gesù, ad esser calpestata è ogni speranza che il film possa risollevarsi. E pensare che per un momento la prospettiva del lost in translation suggerita al suo ritorno da Padre Ferreira aveva fatto sperare in uno straordinario spunto narrativo che rimane invece appena accennato e subito abbandonato.
In conclusione Silence è una pellicola contraddittoria capace di far trasparire tanto il talento e l’ambizione che solo uno dei più grandi registi del nostro tempo potrebbe avere e al contempo fallisce miseramente nel raccontare quello che dovrebbe essere un tema dalle mille sfaccettature e un incontro tra due culture in realtà gemelle come il Giappone e il Cattolicesimo dell’epoca: le massime espressioni di conservatorismo, potere e repressione. Sembra che più che parlare di evangelizzazione, Scorsese voglia evangelizzarci.