Un paio di mesi fa The Walking Dead ci aveva lasciati con una puntata piena di emozioni, e col gruppo di Alexandria pronto a rimboccarsi le maniche per rivendicare la propria libertà. La premiere di midseason porta avanti la storyline principale e non si perde – come temevamo – in un flashback su Jesus (non ancora, dai). Questo nuovo episodio, ricchissimo di dialoghi, getta le basi per arrivare al finale della settima stagione carichi di tensione e, probabilmente, con qualche altro morto da piangere. In tutta la puntata si percepisce costantemente l’instaurazione di nuove dinamiche tra i personaggi, sopravvissuti fino a qui grazie anche alla capacità di adattarsi al nuovo mondo apocalittico.
Facciamo un rapido ripasso. Nella prima stagione eravamo in un accampamento. Poi siamo passati a una fattoria. C’è stata la prigione e poi ancora Alexandria, la città fortificata, la comunità. Questa settima stagione – e la midseason premiere – sancisce l’inizio dell’alleanza tra più comunità e l’apertura dei personaggi alla società. Puntata dopo puntata le leggi del branco sono scivolate dentro una sorta di dittatura che, a sua volta, si è evoluta in un goffo tentativo di democrazia.
Anche se in maniera superficiale, Alexandria, Hilltop e il Regno sono paragonabili alle città-stato dell’antica Grecia. Le póleis erano indipendenti, autosufficienti, ognuna con la propria tipologia di governo (in The Walking Dead attualmente convivono forme primitive di democrazia, oligarchia, monarchia e dittatura); erano separate l’una dall’altra non solo per le rivalità, ma anche a causa della conformazione geografica del territorio che ostacolava le comunicazioni. Terreno accidentato e montagne nella storia greca, vaganti e natura selvaggia in quella di Kirkman.
La disgregazione delle póleis potrebbe aver facilitato ad Alessandro Magno il compito di fare suo il territorio, ma Rick Grimes dalla sua ha i libri di storia che gli sceneggiatori dovrebbero aver studiato, una specie di aiuto-da-casa. Il vero leader del mondo di The Walking Dead è lui, che si è evoluto incarnando in sé tutte le modalità di comando, dal pater familias al capo di stato, adattandosi – se pure a fatica – ai tempi e alle esigenze della sua gente. E ora dimostra di essere di nuovo lungimirante perché, a differenza dei governanti delle póleis, è a caccia di alleati.
È già da un po’ che parte del pubblico di The Walking Dead lamenta l’assenza (se non l’inutilità) dei vaganti; la nona puntata della settima stagione non fa che avvalorare questa mancanza. Centinaia di comparse, ore di trucco e un po’ di computer grafica non mancano mai (non dimentichiamo che Greg Nicotero, oltre ad essere il superamico di Norman Reedus, è uno dei più quotati truccatori e creatori di effetti speciali dell’Universo) ma ormai, in uno show che parla di volontà e di scelte, di comunità e politica, i walkers non sono altro che l’equivalente dei bisonti delle pitture rupestri, animali selvaggi e pericolosi che si muovono secondo l’unico istinto che hanno: mangiare ciò che è vivo.
Anche in questo episodio di vaganti ce ne sono parecchi, ma servono a costruire una spettacolare scena di complicità, mantenendo lo show all’interno del genere. La tensione però sta da un’altra parte: Fight The Dead, Fear The Living è una delle logline più celebri della serie non a caso. Diciamoci la verità: tutti preferiremmo trovarci in ascensore con un vagante piuttosto che al cospetto di Negan. No?
The Walking Dead – la recensione della mid-season première
Con "The rock in the road" torna la serie sui vaganti, ed è chiaro come la nascita spontanea di forme proto-statali sancirà l'evoluzione della narrazione.