I don’t feel like at home in this world anymore è un omaggio a due (anzi tre) maestri del cinema. In primo luogo, la strana ma ottima coppia protagonista, formata da due attori scoperti giovanissimi da Peter Jackson come la neozelandese Melanie Lynskey, Pauline Parker nel bellissimo Creature del cielo e quell’Elijah Wood che ha portato sullo schermo frodo ancora giovanissimo. Ora li troviamo grandi, meno star di quanto si poteva pensare che sarebbero diventati, eppure bravi e convincenti; specialmente Elijah Wood che sta vivendo una seconda giovinezza e si sta affermando come attore comico. Poi c’è una certa assonanza con il cinema dei fratelli Coen, soprattutto per quello che riguarda la mescolanza e la (con)fusione tra diversi generi. Il personaggio di Wood è una variazione sul tema dal John Goodman de Il grande Lebowski. Il regista gli mette addosso gli stessi occhiali e lo dipinge con modi ed ossessioni impossibili, come la passione ossessiva per il Nunchaku e la preghiera, rendendolo un emarginato con la e maiuscola.
Prodotto da Netflix, scritto e diretto da Macon Blair, alla prima regia dopo diverse esperienze da sceneggiatore ed attore, questo film, vincitore del gran premio della giuria all’ultimo Sundance Film Festival è l’ultimo dei piccoli grandi gioielli che ogni anno escono dalla kermesse americana.
Ad una donna depressa (Melanie Lynskey) viene svaligiata la casa e mettersi alla ricerca dei criminali che lo hanno fatto sembra darle un nuovo scopo nella vita. Ad accompagnarla sarà il suo peculiare vicino, interpretato da Elijah Wood. Sulla loro via, però, troveranno dei criminali più degenerati di quanto pensassero.
Il film comincia come una “dramedy”, commistione tra comedy e drama, poi sembra possa prendere il via una trama più sentimentale e tutto questo nei soli primi minuti. Macon Blair ha costruito un prodotto tanto perfetto nell’essere deviante che anche lo spettatore viene preso alla sprovvista. Una linea “assurda”, kafkiana, attraversa la vicenda di una giovane donna che all’inizio voleva solo ritrovare il suo portatile, come il povero protagonista de Il fochista di Kafka voleva solo riprendersi l’ombrello e si ritrova coinvolto in una situazione via via più grottesca.
A Blair va anche il merito di aver scritto e diretto una delle poche, se non l’unica, scena con il vomito che risulta divertente. È anzi la scena più divertente (al pari forse con quella di The Meaning Of Life). Se dovete cercare una ragione per vedere questo film la trovate proprio nel “caso” cinematografico di una scena di vomito divertente. Perché il regista riesce sempre a saltare da un genere all’altro e da un tono all’altro anche nella stessa scena; la grande scena in cui la protagonista va a riprendere il computer ne è l’esempio perfetto: comincia come un pericoloso incontro con dei gangster o criminali che siano e ben presto, con niente più che un movimento di camera e i gesti dei protagonisti, tutto il tono si trasforma e diventa divertente. D’altronde il bello del genere “assurdo” è proprio la commistione fra divertente e tragico, fra avvenimenti che apparentemente sembrano impossibili ma che un buon autore ci fa sentire come normali.
I don’t feel like at home in this world anymore è davvero la gemma indipendente che ogni anno il Sundance scova e porta al fortunato pubblico. Peccato per gli ultimi minuti, dove il tono non è chiaro e il regista sembra indeciso sul tipo di narrazione da adottare. Ma se volete ridere, divertirvi e godere di una scena divertente di vomito, questa pellicola fa per voi.
I don’t feel at home in this world anymore: la recensione del film Netflix
Disponibile su Netflix il vincitore del gran premio della giuria all’ultimo Sundance Film Festival, con Elijah Wood e Melanie Lynsey.