Le note soavi di Edelweiss (brano tratto dal musical Tutti Insieme Appassionatamente) ci cullano mentre delle immagini in bianco e nero ci trasportano negli anni ’70 di un Novecento distopico e a noi sconosciuto. Questo è l’accostamento straniante della sigla di The Man in the High Castle, la serie di Frank Spotniz prodotta dagli Amazon Studios che immagina cosa sarebbe accaduto se le potenze dell’Asse avessero vinto la II Guerra Mondiale.
La Germania e l’Impero Giapponese si sono spartiti gli Stati Uniti d’America e una terra senza legge (la Zona Grigia) fa da cuscinetto tra le due potenze. Le mire espansionistiche del Reich, forte di tecnologie avanzate e di un potente arsenale nucleare, sono tenute a freno solo dalla volontà del Führer di mantenere la pace con Tokyo, ma le ambizioni personali dei gerarchi tedeschi e le pulsioni nazionaliste tra quelli giapponesi minano questo delicato equilibrio.
In questo contesto, un gruppo di rivoluzionari si oppone ai vincitori e cerca di recuperare dei pericolosi e misteriosi film, fulcro dell’intera serie e desiderati da ognuna delle fazioni. L’enigmatica figura dell’Uomo nell’Alto Castello sembra intimamente legata ai film, che potrebbero mettere completamente in discussione lo status quo.
The Man In The High Castle è basata sul romanzo ucronico (cioè fanta-storico) di Philip K. Dick La Svastica sul Sole, la cui prima edizione risale al 1962. Il libro scandaglia le profondità psicologiche di alcuni rivoluzionari le cui convinzioni sono sconvolte da un evento terribile. La prima stagione dello show Amazon è per questo estremamente lenta: i fatti sono pochi e il focus è sullo stravolgimento psicologico dei protagonisti, la cui psiche è raccontata col ricorso ai particolari (occhi che si abbassano, dita che si logorano, piccole contrazioni involontarie delle labbra). È Rufus Selwell, nei panni dell’Obergruppenführer John Smith, che riesce più di ogni altro a farci entrare nell’intimità della mente del suo personaggio, mentre i tre protagonisti (Alexa Davalos, Rupert Evans e Luke Kleintank) sembrano invece cristallizzati nelle loro espressioni di sorpresa e dolore. Quello dell’antagonista risulta infatti il personaggio più interessante: un villain con un’incrollabile fede nei valori della famiglia, della fedeltà al proprio Führer e al partito, e che però si aggrappa quasi inconsciamente a un io profondo che cozza con la sua condizione, rendendolo una contraddizione vivente, meravigliosamente resa dallo script.
The Man in the High Castle, alla luce delle suddette considerazioni, si regge sull’ambiguità e la complessità dei personaggi, la cui scrittura a tratti criptica richiede allo spettatore una grande attenzione nel cogliere ogni possibile dettaglio rivelatore. È per questo che la prima stagione richiede un periodo di adattamento: a facili espedienti per incollare lo spettatore allo schermo si preferisce far levare su un’atmosfera affascinante ma indecifrabile. Costruiti i character, è nel secondo ciclo di episodi che finalmente veniamo sorpresi da una crescente accelerazione. L’introspezione viene bilanciata maggiormente con l’azione, e i tempi ad essa dedicati si riducono a vantaggio di un maggior equilibrio narrativo. Così The Man in the High Castle sboccia; diventa magnetica, avvincente, si innalza di livello. I nodi iniziano a venire al pettine, ma anche qui quasi nessuna spiegazione è esplicita: lo spettatore assembla i pezzi, mette insieme gli indizi e deduce. E quando il quadro comincia ad essere chiaro, il finale della seconda stagione suggerisce nuovi sviluppi per il futuro.
Quella di Spotniz è una serie decisamente riuscita sull’ineluttabilità del destino e su come questo, a prescindere dall’epoca o dal contesto storico, saprà trovarci. È anche e soprattutto una parabola disturbate che ci porta a chiederci quanto degli eventi apparentemente minori possano in realtà influenzare le nostre vite.
The Man In The High Castle: la recensione della serie
In attesa della terza stagione e del cambio di showrunner, un invito a riscoprire la serie ucronica disponibile su Amazon Prime.