Giovanni Veronesi ci ha abituati a pellicole dal taglio nazionalpopolare, che se di certo non si sono distinte per qualità autoriali spesso hanno saputo intercettare i gusti e il sentire del grande pubblico, con risultati più che importanti per la martoriata industria cinematografica italiana – si pensi al fortunatissimo Manuale d’Amore. Ora il regista e sceneggiatore pratese torna in sala con il suo nuovo lavoro che, sin dal titolo, sembrerebbe un concept movie ideato per cavalcare la tematica dei cervelli in fuga. D’altronde dovrebbe derivare dall’omonima esperienza radiofonica con cui lo stesso Veronesi è entrato in contatto con le storie di quotidiano sconforto di decine di giovani italiani in difficoltà, cui vorrebbe in qualche modo rendere giustizia con questo lavoro. Se le testimonianze dei ragazzi fuggiti all’estero che accompagnano i titoli di testa di Non è un paese per giovani sembrerebbero confermare questa sensazione, in realtà basta poco per rendersi conto che non solo il film non vuole lontanamente toccare il tema dei ‘cervelli in fuga’, ma che addirittura si mostra totalmente incapace di raccontare il paese reale; tanto da diventare a tratti quasi offensivo e risibile.
La pellicola segue le vicende di Sandro (Filippo Scicchitano) e Luciano (Giovanni Anzaldo), due giovani insoddisfatti delle misere prospettive offerte loro dal mercato del lavoro italiano che decidono di espatriare per cercare fortuna. Fin qui poco male. Il problema è che questi due individui dalla dubbia scolarizzazione decidono di andarsene a Cuba, che come è risaputo è una terra dell’abbondanza gettonatissima tra chiunque voglia fare fortuna all’estero. Il loro grande progetto è quello di buttarsi sul business delle infrastrutture telematiche (“portiamo il wi-fi ai Cubani!”), ma ovviamente Veronesi ha la grandissima pensata di far sì che nessuno dei due sia un ingegnere delle telecomunicazioni o che almeno dimostri la benché minima competenza nel settore (anzi, parliamo di uno scrittore e di un cameriere), accantonando completamente l’idea dei ‘talenti da esportazione’ e rendendo i comprimari due sprovveduti che vanno alla ventura convinti di fare affari in virtù di non si sa quale miracolo. Come se la premessa non fosse abbastanza debole, il vero ‘colpo di genio’ è un altro, e allontana definitivamente lo script da un piano di vaghissima sovrapponibilità col reale. Il buonsenso avrebbe potuto suggerire di raccontare di ragazzi più o meno talentuosi che, per vedere riconosciuto l’impegno precedentemente profuso negli studi, decidono di trasferirsi in terra straniera per approfittare di un mercato del lavoro più sano e meritocratico. E invece Veronesi, che qui evidentemente del buonsenso vuole farne a meno, fa sì che a permettere a questi due ‘cervelli’ di improvvisarsi – molto maldestramente – imprenditori sia il padre di uno dei due, che pur essendo un edicolante sull’orlo del fallimento costretto a improvvisarsi fruttivendolo di straforo (sì, avete letto bene), tira fuori dal nulla 20.000€ e finanzia il confusissimo progetto imprenditoriale dei figli. Un progetto ai limiti della truffa e che si dovrebbe reggere in piedi solo grazie a un prestanome.
In realtà sarebbe apprezzabile lo sforzo di non seguire lo spunto indigeribilmente retorico – ma fondato – del giovane meritevole che vede riconosciuto il proprio valore solo lontano da casa, così come lo sarebbe anche quello di voler spingere la narrazione lungo sentieri piuttosto estremi e meno consolatori (uno dei ragazzi entra nel giro dei combattimenti illegali). Il problema è che la tentazione di esplorare un arco di crescita (o caduta) dei personaggi non è accompagnata dal senso del ridicolo, e che le forzature della trama sono tante e così grossolane da consegnarci uno script meccanico, caricaturale e incoerente, che sarebbe indegno anche della peggiore delle fiction.
Nonostante la gradita presenza del sempre ottimo Sergio Rubini e la fugace ma efficacissima apparizione di Nino Frassica, che con il suo geniale surrealismo ci regala come al solito un one man show, i due protagonisti principali contribuiscono a sgombrare definitivamente il campo da qualsiasi discorso meritocratico, considerato che si ritrovano a reggere interamente sulle proprie spalle una pellicola pur dimostrandosi incapaci di offrire performance anche solo minimamente decorose. Scicchitano e Anzaldo si dimostrano infatti dei loppidi cinematografici, uno con l’espressività di chi legge ad alta voce la lista della spesa e l’altro con la ‘spontaneità’ gigionesca di chi potrebbe dare il proprio meglio solo in una telenovela. Il mix offerto dalle prestazioni attoriali indecorose dei due e dall’improbabile scrittura che ne delinea i personaggi trascina a fondo la pellicola, eppure al loro fianco brilla ancora più luminoso il talento di Sara Serraiocco, che a dispetto di un personaggio che la malattia ha trasformato in una sorta di velina-comunistoide (non chiedeteci il perché), risulta una vera benedizione calata dall’alto. La giovane attrice, già apprezzatissima in La Ragazza del Mondo, nonostante si muova in un campo minato riesce a regalarci una performance attentamente costruita ma di straordinaria naturalezza, in cui le mille sfumature date da una mimica espressiva giocata sulla reticenza ci fanno affezionare al suo personaggio, che ogni volta che appare in scena fagocita chiunque altro.
Detto questo, la Serraiocco rimane però una felice eccezione in un lavoro di un’imperizia disarmante: si pensi che in una scena del film si sceglie di ricorrere all’ormai abusassimo drone, che però potrebbe effettivamente valorizzare l’incantevole location di una bianca spiaggia cubana. Purtroppo mentre la camera sale sempre più in alto, restituendoci le verdi e cristalline acque che circondano il protagonista, l’unica cosa che finisce per colpire la nostra attenzione sono l’ombre e il riflesso del drone che attraversano tutto lo schermo, neanche avessimo davanti un test condiviso su YouTube da un tredicenne. Ecco, questa indecorosa mancanza di cura è la perfetta metafora per riassumere l’ultimo film di Giovanni Veronesi: quel che c’è di buono non basta a distrarre da una realizzazione improponibile. Forse l’Italia non è un paese per giovani, ma rimane la speranza che non sia nemmeno un paese per Giovanni. Gli consigliamo di cercare fortuna all’estero. Sembra che a Cuba il business del Wi-Fi tiri tantissimo.
Non è un paese per giovani – la recensione in anteprima (no spoiler)
Una straordinaria Sara Serraiocco non basta a contenere i danni di uno script incomprensibile e a distrarre dalle terribili performance dei protagonisti.