È sempre difficile dover giudicare un’opera così sfacciatamente incongrua e stucchevole come La Parrucchiera di Stefano Incerti, ultimo film del regista de L’uomo di Vetro (2007) e Gorbaciof (2010) che racconta di una Napoli inedita e delle sue caparbie e instancabili protagoniste.
La tentazione di esser oltremodo lapidari, unita a una certa intolleranza verso una precisa vena provinciale e pressappochista del cinema nostrano, porterebbe a cassare senza appello il lavoro di Incerti, e d’altro canto un atteggiamento di gratuita bonarietà teso a giustificare ogni naïvité come ironia autoindulgente finirebbe per sfociare nel compassionevole; ripulendo il film, abbellendolo e quindi uccidendolo – per parafrasare la critica Pauline Kael.
In effetti, al di là delle logiche sottostanti la nostra analisi, è proprio il processo che ha portato alla realizzazione di La Parrucchiera a sembrare un lavoro abbozzato di abbellimento da cartolina. Una patinatura glam e pop eccessiva, per una città come Napoli, tra l’altro, che non ne ha certamente bisogno. Allontanandosi così dalla realtà criminale (ma più verace) del Gomorra di Sollima, il regista napoletano dà spazio a un caleidoscopio irreale che solo a tratti ricorda la bella città partenopea; dimenticata sotto strati di trucco e ambienti kitsch.
In questa cornice atipica e superflua prendono piede le vicende di Rosa (Pina Turco); una ragazza madre, vivace e vitale, che cerca di sbarcare il lunario lavorando nel salone da parrucchiera di Patrizia e di suo marito Lello, un uomo viscido attratto da lei fino all’ossessione. A causa delle continue avances di quest’ultimo (e che ricordano ahimè alcuni accorgimenti del tipico trash all’italiana), Rosa si trova però costretta a licenziarsi e decide di aprire un salone tutto suo con le amiche di sempre. A dispetto di un finale agrodolce, ben presto i sogni di Rosa sembreranno avverarsi: il negozio si afferma pur con qualche difficoltà e nella vita della ragazza si riaffaccia anche Salvatore (Massimiliano Gallo), da sempre suo grande amore e probabilmente unico personaggio sano costretto in una gabbia di personaggi femminili nevrotici.
L’obiettivo di Stefano Incerto era di raccontare l’anima della Napoli più popolare attraverso una pellicola tutta al femminile, in una sorta di società moderna e matriarcale dove l’uomo ha un ruolo marginalissimo. Il problema è che a prendere il sopravvento non è la figura della donna nella sua infaticabile attitudine a perseguire sogni e aspirazioni, ma un’inguaribile isteria collettiva che stordisce prima i personaggi e poi l’inerme spettatore.
Il capoluogo campano, da città incantevole che abbiamo saputo apprezzare in alcune commedie di Ettore Scola e Massimo Troisi, declina qui a novella Torre di Babele dove personaggi irrequieti e caricaturali si ostinano a urlare i loro problemi (letteralmente e in dialetto napoletano) in una cacofonia assordante e fastidiosa. Un coacervo di stereotipi umani privi di sostanza – dal transessuale esuberante al ragazzo gay effemminato – in cui le tematiche più attuali e rilevanti si perdono in un alone di pochezza e falsa retorica. Se a tutto questo si aggiungono poi delle scelte cromatiche da trip lisergico, capirete presto del perché in sala ci si augurasse (strenuamente) un leggero daltonismo e una temporanea ipoacusia.
Forse il suo autore ha voluto giocare volutamente con il trash e il neomelodico (le musiche del film sono di un gruppo autoctono), per ridare a Napoli un tono più aperto alla speranza e alla vivace convivialità, soprattutto a seguito dei recenti film che hanno contribuito a etichettarla come “città malavitosa”. In questo senso La Parrucchiera poteva risultare un progetto lodevole e interessante sulla carta ma per i motivi di cui sopra tende piuttosto a degenerare in una commedia isterica e poco piacevole: un calderone ricolmo di elementi diversi e nauseanti, tronfio e pesante nella sua ricercata leggerezza.
La Parrucchiera: la recensione in anteprima
Una caricatura indigeribile della bellissima Napoli, trasformata in un teatro kitsch, cacofonico e lisergico in cui si muovono stereotipi ambulanti.