Siamo in Quebec, nel 2012, e il costante aumento delle tasse universitarie diventa motivo di malcontento crescente tra gli studenti, finché i movimenti universitari non decidono di portare la protesta a un livello successivo, partendo da uno sciopero. Come è inevitabile che sia, le rimostranze giovanili finiscono per essere un leviatano indistinto in cui coesistono spiriti estremamente contrastanti, tra cliché e pragmatismo, stereotipo e utopia. È così che la sacrosanta rivendicazione del diritto allo studio diventa un pretesto per l’autodefinizione generazionale, e in tale contesto i quattro ragazzi protagonisti del film decidono di costituire un ‘nucleo combattente’ autonomo.
Determinati a supportare le proprie idee con atti sovversivi, i comprimari si isolano in un appartamento in quello che – visto dall’esterno – sembra un esperimento sociologico, un nido in cui covare un rancore anti-borghese che è indomabile e furente pur sembrando un esercizio di stile; una piastra di Petri su cui i registi ci permettono di studiare “la scintilla che cambierà le cose” in un ambiente culturalmente tanto sterile quanto autoreferenziale.
I canadesi Mathieu Denis e Simon Lavoie decidono di inondare la sesquipedale durata di oltre 3 ore di Ceux qui font les révolutions à moitié n’ont fait que se creuser un tombeau (Quelli che fanno la rivoluzione a metà non fanno che scavarsi la tomba) di ogni sorta di suggestione, un fiorire disordinato e incontrollabile degli stessi stimoli che probabilmente sono alla base del disorientamento dei protagonisti.
Tra nudità, citazioni a lettere capitali, intermezzi documentaristici, spiegoni autocompiaciuti e violenza inflitta e autoinflitta, questo estenuante lavoro vuole mettere a dura prova lo spettatore e ci riesce, restituendo un ritratto afono della profonda contraddittorietà di chi gioca alla rivoluzione. Lo sguardo della macchina da presa non giudica e demanda un parere allo spettatore, in quello che più che un esercizio di apertura mentale sembra un ruffiano cerchiobottismo. La retorica pretenziosa di chi arriva a tre ore e passa di metraggio senza forse aver troppo da dire è la vera unica scintilla che si intravede nella pellicola.
Ceux qui font les révolutions à moitié n’ont fait que se creuser un tombeau, arrivato anche alla Berlinale in una sezione collaterale dedicata ai giovani, ha preso le mosse dal Toronto International Film Festival, dove è stato premiato come miglior produzione Canadese del 2016. Considerato che il premio è stato sottratto allo straordinario Juste la fin du monde di Xavier Dolan, possiamo dire che sì, in un certo senso Ceux qui font les révolutions à moitié n’ont fait que se creuser un tombeau è un film capace di sobillare pulsioni di violenza difficilmente controllabile.
Lucca 2017: la recensione di Ceux qui font les révolutions à moitié n’ont fait que se creuser un tombeau
Tre ore interminabili mirano a raccontare tra cliché e cerchiobottismo un microcosmo antiborghese tanto contraddittorio quanto inconcludente.