Presentato alla 69° edizione del Festival del Cinema di Locarno, tra le proposte del Lucca Film Festival e Europa Cinema di quest’anno, all’interno del concorso dedicato ai lungometraggi, figura anche il film thailandese (co-prodotto da Olanda, Francia e Qatar) By The Time It Gets Hard (titolo originale Dao Khanong), opera seconda della regista Anocha Suwichakornpong (nella sua carriera ha anche partecipato ad un film collettivo intitolato Breakfast Lunch Dinner).
In questo film tendono a mischiarsi ricostruzione storica e metacinema, finzione e realtà.
In By The Time It Gets Dark si gioca molto sul concetto di doppio: i protagonisti del film sono infatti una regista e la sua musa, una ex studentessa militante degli anni ‘70, una cameriera che cambia di continuo lavoro e una coppia di attori (un uomo ed una donna); le loro esistenze sembrano essere legate ad un filo invisibile.
Il lungometraggio rievoca un fatto tragico della storia thailandese: il massacro, da parte della polizia e dei gruppi paramilitari di estrema destra, dei giovani studenti all’Università Thammasat nel 1976.
By The Time It Gets Dark è l’archetipo del classico film da festival impegnato: i tempi dilatati, i silenzi, il simbolismo e le inquadrature fisse servono alla regista per riprendere il discorso, utilizzando un meccanismo di scatole cinesi senza soluzione di continuità, su un episodio che nel paese asiatico, ancora oggi, non viene in alcun modo citato. Attraverso il metalinguaggio, la Suwichakornpong compie una riflessione sul ruolo che un artista (o, più in generale, un intellettuale) ha nella società: come può un uomo (o una donna), che vive in un ambiente confortevole e privilegiato, ripercorrere eventi così traumatici che sono di fatto delle realtà molto lontane? Altro punto fondamentale del film è l’analisi che la regista thailandese fa del mezzo cinema, visto da lei quasi come uno specchio (anche se deformato) della realtà, soprattutto per quanto riguarda la sua evoluzione digitale. L’elemento surreale poi, nel corso dei 105 minuti di durata, emergerà prepotentemente (la cameriera che assume nuovi aspetti, l’attore vestito grottescamente da pesce all’interno di un set), permettendo in questo modo alla narrazione di mutare in maniera continua e non lineare. Il film visivamente è molto curato (ci sono delle immagini davvero suggestive) ma è meravigliosamente sterile, compiaciuto e narcisista nella continua ricerca di una bellezza troppo fine a sé stessa. La domanda che viene automatica dopo la visione di un film come By The Time It Gets Dark, ma possiamo allargare il discorso anche ad altre pellicole, è questa: a chi vogliono parlare queste opere, ad un pubblico universale in grado di poter comprendere il messaggio che il regista vuole lanciare oppure semplicemente a quel club dorato (e numericamente esiguo) di addetti ai lavori e super cinefili che ogni anno invadono i festival di cinema di tutto il mondo? A volte sembra che l’obiettivo di alcuni autori (e autrici) sia solo quello di rendere i propri lavori deliberatamente inaccessibili agli spettatori medi per farsi un nome nell’ambiente elitario delle kermesse e costruirsi, di conseguenza, un’immagine di artista “illuminato” che usa storie socialmente impegnate, provenienti dagli angoli più nascosti del mondo, per avere questo tipo di riconoscimento. Il problema di fondo però è questi registi rimangono, in maniera più o meno volontaria, rinchiusi in quel determinato contesto e, cosa più grave di tutte, le loro opere alla fine è come se non esistessero, visto che nessuno ne parlerà (perché nessun distributore estero è disposto a comprare una pellicola che, già alla vigilia, è destinata a non incassare nulla).