È il grande attore Willem Dafoe a segnare la sesta giornata del Lucca Cinema Festival e Europa Cinema. In un incontro pubblico al Teatro del Giglio l’interprete statunitense racconta e si racconta, rompendo da subito il cerimoniale e cercando un contatto diretto col pubblico, chiedendo che vengano accese le luci in sala. Quello che segue è un incontro intimo e divertente, in cui sono molte le tematiche ad essere toccate. Anonima Cinefili era in prima fila per voi; ecco il nostro resoconto.
Willem, lei ha iniziato in teatro per poi arrivare a Hollywood. Secondo Vittorio Gassman nel teatro si recita e nel cinema bisogna ‘essere’. Qual è la differenza tra essere attore di teatro e attore di cinema, secondo lei?
Con tutto il dovuto rispetto, non concordo con Vittorio Gassman. Un attore può coprire una gamma incredibilmente ampia di vite in ogni medium. Per me ‘essere’ il personaggio a teatro è altrettanto importante. Anche sul palco, dal vivo, devi ogni sera portare in vita qualcosa, ed è fondamentale diventare il personaggio con tutto te stesso. Semmai direi che il cinema consiste nel catturare una performance, il teatro nel farla rivivere di sera in sera. Ovviamente un’altra grande differenza è il ritmo: in teatro sei tu il padrone dei tuoi ritmi, in un film lo è il montatore.
Ormai il digitale sta sempre più rimpiazzando la pellicola; come attore percepisce questo cambiamento?
Filmare in digitale consente agli attori di essere più rilassati; la ricerca è meno spasmodica e aggressiva. Puoi prenderti i tuoi tempi perché non sei preoccupato della pellicola che stai sprecando. Magari questo approccio ha il vantaggio di garantire una maggiore tranquillità all’interpretazione, ma credo che la tensione creativa tipica della pellicola sia in realtà una grande ricchezza nella resa di un personaggio.
Qual è il suo approccio alla recitazione? Adotta un metodo, vuole dirci come si avvicina a una parte?
Non ho un metodo in senso assoluto. Per ogni lavoro cerco il modo migliore per arrivare alla performance. A volte sai già in che direzione vorrai andare, altre volte hai bisogno di scoprirlo. Nel corso degli anni però c’è qualcosa che non è cambiato: penso che la recitazione sia un gioco di fiducia in te stesso, e devi sentirti flessibile e fiducioso di poter essere in grado di fare del tuo meglio. È solo questa la costante che ritrovo in ogni mio lavoro. Devo dire che invecchiando cambiano le ambizioni: all’inizio pensi prevalentemente alla tua carriera, mentre più avanti vuoi fare solo qualcosa che ti convinca, che ti faccia sentire a tuo agio o che magari ti permetta di perderti.
Dafoe, lei ha lavorato con alcuni dei più grandi registi del nostro tempo. Vuole dirci qualcosa a riguardo?
Molte delle mie scelte sono basate su quanto sia ‘attratto’ da un regista. Il mio lavoro consiste nel mettermi al loro servizio, quindi devo capire cosa vogliano e devo diventare la loro creatura. Perché loro hanno la telecamera, io sono quello che danza davanti a un falò. Ogni regista è diverso.
Su Michael Cimino posso dire che mi ha licenziato perché ridevo a una barzelletta di una persona durante una prova luci. E pensare che fino a quel momento me la stavo godendo!
Paul Schrader invece è molto formale nel suo approccio, ci ho lavorato diverse volte e non mi ha mai parlato, la qual cosa mi ha fatto venire diversi dubbi finché non è venuto lì e ha detto: “Sono uno che parla poco, ma stai facendo un gran lavoro!”. Un sospiro di sollievo!
Con Walter Hill mi sono divertito moltissimo, è stato suo il primo film che ho fatto per una major e il regista aveva fatto tutta una lista delle cose che amava vedere in sala da adolescente, e inseriva tutti quegli elementi nella pellicola, uno per uno.
Martin Scorsese invece mi ha proposto un film che ha rappresentato una sfida. Il protagonista di L’ultima tentazione di Cristo era un rivoluzionario, ma quando interpreti un personaggio chiamato Gesù vuoi evitare di cadere nello stereotipo e al contempo di andare troppo lontano dall’immaginario collettivo; devi rendere credibile quel personaggio, in quel preciso momento e in quella precisa storia.
Cosa ne pensa dei timori di alcuni secondo i quali il nuovo establishment statunitense intenderebbe attuare una stretta sulla censura?
Non so che dire della censura, perché non mi pare di incontrarla da vicino. Più che altro sento il problema della necessità di distribuire un film in sala; è quello che condiziona e in un certo senso ‘censura’ le storie o le immagini. Non è un problema politico quanto commerciale: il cinema è una forma d’arte popolare, deve raggiungere le persone e ora più che mai i film vengono plasmati pensando a quello che vorrà il pubblico. Lo spirito indipendente si sta sempre più riducendo, ed è una questione economica che non ha a che fare con Trump. È un problema che avete anche in Italia.
Che impatto ha avuto sulla sua carriera un film dal forte significato politico come Nato il 4 luglio di Oliver Stone?
Con Stone avevo già girato Platoon e Nato il 4 luglio era il suo film successivo, il primo era stato un’esperienza intensa e la mia parte in Nato il 4 luglio, essendo più piccola, la vedevo in qualche modo come una continuazione del mio lavoro su Platoon. È stato tutto molto naturale, perché ho immaginato il ruolo come quello di uno dei superstiti della storia raccontata nel lavoro precedente, penso fosse un’epopea in due parti.
In passato ha prestato la sua voce a personaggi animati, com’è essere un doppiatore di cartoni?
Come ho sentito la parola ‘doppiatore’ mi sono venuti i brividi. Penso alla vostra abitudine di doppiare i film. Lo so che l’Italia va veramente orgogliosa di questa tradizione, ma dovreste davvero farla finita. Per quanto invece riguarda le interpretazioni vocali per un film animato, è come fare un match di tennis, è un botta e risposta continuo tra l’interprete e l’arte degli animatori. Molto divertente.
Cosa ci può dire della sua esperienza con Wim Wenders per Così Lontano, Così Vicino?
Domanda interessante. Non sono sicuro che Wenders sapesse cosa stesse cercando in quel film, ma di certo sapeva cosa stava facendo.È stata un’esperienza molto stimolante. Eravamo a Berlino, il muro era appena stato abbattuto, e quell’atmosfera è tutta nel film. Forse il film non è poetico e riuscito come Il Cielo Sopra Berlino, di cui è il seguito, ma ritrae perfettamente lo spirito di quella città in quel momento; c’è l’aria che respiravamo. Era anni che volevamo collaborare con Wim ma non c’eravamo mai riusciti. È stato bellissimo lavorare in una cultura che non fosse la mia, dovermi muovere sul set come un outsider, è stata un’esperienza molto stimolante.