Solo due giorni fa abbiamo avuto modo di incontrare il grande regista statunitense Oliver Stone al Lucca Film Festival e Europa Cinema, e ci ha parlato principalmente della politica americana e internazionale (qui trovate l’articolo). Ora Stone torna a parlare e riflette principalmente sui suoi lavori passati.
La musica è molto importante nei suoi lavori. Può dirci qualcosa in più sul rapporto tra le musiche e il suo cinema?
Considero Alexander come un’opera lirica, ricca di grande musica, emozionante in ogni suo momento. Ho lavorato con un genio come Ennio Morricone, non siamo andati molto d’accordo, ma questo non è importante per il processo creativo. Non seguo regole precise, non ho una formazione musicale in senso stretto, so quello che mi piace e quello che può funzionare in un determinato film. Anche in Snowden, volevamo una musica che sottolineasse l’introverso carattere del protagonista, il suo stare dentro il computer ma anche rimanere dentro se stesso. In Ogni maledetta domenica ho lavorato con 5 compositori nello stesso momento, è stata un’esperienza importante per me.
Quanto è importante per lei il processo di scrittura?
Ho sempre amato moltissimo scrivere, ho iniziato prima a scrivere che a fare film. Mio padre mi dava 25 centesimi ogni settimana se scrivevo un soggetto; a quel tempo, ero più interessato ai soldi per andare a comprare i fumetti. Scrivere è un’espressione dell’anima, un modo per nutrirla. Vivere sempre con una visione di sei pollici, a 360 gradi, anche fuori da sé per avere presente la realtà e il contesto in cui si vive. Scrivere mi dà un motivo di vivere. Tutt’ora tengo un diario quotidiano.
E il cinema italiano?
Il cinema italiano è diverso, sensuale, mistico, un mondo di fantasia che ti fa sognare; da Fellini a Rossellini, fino a Bertolucci, ho visto almeno dieci volte Novecento con le musiche di Morricone. Sono posseduto e influenzato dal cinema italiano.
Con Platoon ha cominciato ad affrontare il tema della guerra; come vede la trilogia del Vietnam, considerando anche la sua esperienza personale?
Considero Platoon una vera autobiografia sotto mentite spoglie, parlo proprio della mia esperienza personale in Vietnam; appena distribuito fu subito un incredibile successo. La seconda parte, Nato il 4 luglio, vuole raccontare un altro capitolo, ovvero, il ritorno in America dopo la guerra. Tom Cruise, un soldato che ha perso le gambe in battaglia, deve rifarsi una vita da zero. Quella pellicola mi portò il mio secondo Oscar come regista. Ma Hollywood è un covo di vipere e quei premi a qualcuno davano fastidio; evidentemente io avevo ricevuto troppo in troppo poco tempo.
Cielo e terra, terzo capitolo della trilogia, è un’altra declinazione, visto che la protagonista è una donna vietnamita che sposa un americano. Gli americani non furono interessati al progetto, forse perché al centro c’era una protagonista asiatica. In realtà per me è uno dei film più importanti ed emozionanti che abbia fatto. Ho sentito la necessità di raccontare la storia dell’America perché noi siamo molto più importanti del qui e ora. Voglio raccontare l’amore per il mio paese ma ho ancora tante storie personali da dare. La relazione con il mio paese è una storia d’amore ma anche di odio, un po’ come il rapporto con una madre. Sento questa responsabilità interiore di narrare un quadro d’insieme che ho descritto anche nel 2013 nel documentario USA: La storia mai raccontata.
Può spiegarci il suo conflitto con gli studios americani?
Ho cercato di rimanere spesso fuori dagli studios. Le major non vogliono correre rischi, soprattutto con delle storie che vanno contro l’America stessa. Credo che oggi non sarebbe possibile produrre un film come Nato il 4 luglio. Bisogna sfatare il falso mito dell’America come salvatrice del mondo.
Per Snowden, per esempio, non c’era possibilità di avere dei finanziamenti americani, abbiamo dovuto cercare altrove. Alla fine abbiamo trovato i soldi in Francia e in Germania. Dovete capire che è davvero difficile fare alcuni tipi di film negli USA. Le mie sono pellicole di critica agli Stati Uniti, ma essa è mossa dall’amore, è sempre una critica costruttiva. Per esempio, USA: La storia mai narrata è una pellicola di 12 ore sugli Stati Uniti, ma è stata finanziata da un magnate brasiliano. Anche il mio nuovo documentario su Vladimir Putin è stato finanziato da un brasiliano.
Alla luce degli eventi attuali, cosa pensa della situazione con la Russia di Putin? Vede in arrivo una terza guerra mondiale?
Per quanto riguarda Putin, questa è una questione che si ripropone ciclicamente. Le crisi capitano sempre, fanno parte della storia dell’uomo, ma c’è sicuramente una tensione contro la Russia portata avanti dal mondo occidentale. Nel mio prossimo documentario, Conversations with Putin, le conversazioni con Putin si svolgono nel corso di due anni: abbiamo parlato di arte, filosofia e di vita quotidiana. Se una persona vuole dichiararsi nemica di un’altra, ora è l’occasione per conoscerla. Questa è la prima volta che il mondo ha la possibilità di vedere da vicino Putin.
Parlando di terza guerra mondiale, posso solo dire che noi tutti tendiamo a dimenticare molti eventi della storia: per esempio, dobbiamo ricordare i grandi rischi che abbiamo corso nell’inverno nucleare e Reagan che, per un volta, fece una cosa fatta bene.