Il paragone con l’acclamato film di Jenkins è probabilmente fuorviante, perché con Dayveon non arriviamo alle vette del vincitore per l’Oscar al miglior film del 2017, eppure la pellicola scritta e diretta dall’esordiente Amman Abbasi ha una profondità, un’onestà e una naturalezza nel raccontare la comunità afroamericana che viene spontaneo andare con la mente alle avventure di Chiron.
Stavolta il protagonista è Dayveon (Davin Blackmon), da tutti chiamato Day Day; un tredicenne che cerca un posto nella società dopo la morte violenta del fratello maggiore. Le gang di strada sembrano l’unica realtà con cui un giovane nero possa misurarsi, eppure non siamo nei bassifondi di New York, bensì in una periferia rurale dell’Arkansas che riporta immediatamente alla mente i cortili recintati e i liquor shop delle fotografie suburbane di Gregory Crewdson.
La pressione per non esser più vittima degli atti di bullismo dei ‘ragazzi del quartiere’ (un branco di poco di buono inclini alla violenza, al sopruso e al crimine) e diventare uno di loro, la ricerca di un’identità sulle orme del fratello e la necessità di riempire le lunghe e noiose giornate estive sono la molla che porta Day Day a mettersi in situazioni in cui evidentemente non è a proprio agio, ma che con l’andare del tempo potrebbero diventare la sua triste normalità. La cattiva strada sembra ormai spianata, eppure è qui che il film (com’era stato con il magnifico personaggio interpretato da Mahershala Ali in Moonlight) diventa interessante, introducendo due figure che rappresentano per il protagonista un’opportunità di riscatto, una possibilità da cogliere: il padre di Dayveon (Dontrell Bright) e il giovane Brayden (Cordell Johnson), un ragazzo con qualche anno di più e molto sale in zucca. Il genitore, nonostante lavori sodo ogni notte e quindi sia poco presente di giorno, fa di tutto per esprimere il proprio affetto e cercare un dialogo con un figlio che sta diventando sempre più ‘difficile’, proprio come lo era il fratello; mentre il saggio amico, claudicante a causa di una sparatoria cui era sopravvissuto anni prima, prende a cuore il destino del protagonista e decide di impegnarsi con tutto se stesso affinché non sprechi la propria esistenza.
La grazia con cui Abbasi decide di raccontare il tema ‘rischioso’ della violenza giovanile e della bestiale psicologia del gruppo è evidente sin dalle primissime scene, quando in un 4:3 inondato di luce calda, Day Day percorre lunghi viali alberati su una bicicletta ormai evidentemente troppo piccola per lui, mentre insulta ogni oggetto gli si pari davanti agli occhi (“stupida strada, stupido sasso, stupido cartello, stupido cane, stupido albero”). Una manifestazione di rabbia ancora infantile ma che riassume magnificamente il senso di estraniamento dal proprio contesto, quell’amalgama di impotenza e voglia di riscatto che è il terreno fertile per la ‘cultura’ delle gang. In tutto il film incontreremo solo e soltanto attori di colore, e dalla straordinaria naturalezza con cui viene dipinta la comunità afro-americana, non ci si potrebbe aspettare che in realtà Abbasi sia un immigrato di seconda generazione figlio di pakistani. Uno dei meriti più grande del film è la grande onestà di un racconto che non ammicca in nessun modo allo spettatore e riesce addirittura a tenersi lontano da ogni retorica, pur attuando con grande forza una denuncia sociale che ha la forza di un riflettore accesso su un’America che fa comodo non vedere.
Come al solito a finire tra i ranghi della criminalità c’è prima di tutto chi viene tenuto ai margini della società, chi non ha la possibilità di trovare canali espressivi e forme di autorealizzazione. Questo messaggio Abbasi lo consegna in modo molto chiaro, ma con altrettanta nettezza suggerisce che la soluzione non verrà da fuori, ma dal cuore stesso della comunità nera. Fate in modo di rimediare il film, non ve ne pentirete.
Lucca 2017: Dayveon, quasi un Moonlight nel ghetto (recensione)
Un tredicenne decide di crearsi un'identità entrando nella gang di cui faceva parte il fratello, morto da poco, ma qualcuno ha a cuore il suo destino.