Nella cornice della dodicesima edizione del Lucca Film Festival e Europa Cinema abbiamo incontrato il regista e sceneggiatore francese Olivier Assayas per parlare del suo nuovo film Personal Shopper (qui la recensione), del suo rapporto con Kristen Stewart e, in generale, della sua idea di cinema. In un perfetto italiano, il cineasta ha anche condiviso riflessioni sul suo processo creativo, ci ha detto del film scritto per Polanski e ha fatto cenno alla sua passione per la musica.
In Personal Shopper Kristen Stewart interpreta il personaggio di un’assistente; un ruolo molto simile a quello che già aveva in Sils Maria, un archetipo che si trova sempre a contatto con la celebrità, la fama e la ricchezza ma non ne è mai veramente parte. Cosa la affascina di questa tematica?
Ci sono diverse cose da dire. La più semplice è che, nel mio rapporto di lavoro con Kristen, quello che mi interessa è la persona. Io sono sempre più interessato alla personalità di un attore che alla sua tecnica di recitazione o al suo divismo. Con un’attrice come Kristen, una diva moderna, ho bisogno di togliere da lei questo peso, questo sipario che ci separa. In un certo modo, in questi due film, questo fardello l’ho posto su qualcuno altro. Così facendo Kristen è spogliata, è nuda. La persona di Kristen è nuda. Penso che lei, nel lavoro che facciamo insieme, sia molto interessata a questo aspetto. Un altro motivo per cui mi intriga il personaggio dell’assistente ha invece a che fare con l’essenza dello script: sono attratto dalla dialettica servo-maestro, tipica di certe commedie classiche. Una cosa che è molto presente nei drammi di Marivaux o in un romanzo di Diderot come Giacomo il fatalista e il suo padrone….
Oppure la dialettica “servo-padrone” di Hegel.
Esattamente. Io non voglio essere troppo “astratto” ma il fulcro del mio cinema è sempre in un rapporto dialettico. È lì che trovo ispirazione. Ho l’impressione che sia una costante in quel che ho fatto, anche con Juliette Binoche. In questi due film è come se fossi arrivato a qualcosa che cercavo da molto tempo. Soprattutto, mi sembra di esser arrivato a qualcosa di “purificato”.
A proposito del divismo. Kristen Stewart è diventata una celebrità grazie alla saga young adult Twilight, e lo stesso si può dire di Robert Pattinson, protagonista del suo prossimo progetto. Crede che nel cinema contemporaneo, per poter diventare “divi” e per poter poi lavorare in un ambito più autoriale, ci sia bisogno di passare dal grande cinema commerciale o dalle grandi produzioni hollywoodiane?
Sì, però è sempre stato così: c’è sempre questa dinamica. Il cinema, non direi indipendente ma artistico, si fa da sempre con la complicità delle star. Loro sono un intermediario tra il pubblico e l’autore, la notorietà dell’autore si costruisce con il cinema popolare e commerciale. Poi l’attore cerca dei ruoli più interessanti perché vuole incarnare personaggi migliori, originali. Le star hanno bisogno del cinema artistico perché sono al centro del cinema artistico. In questo senso io, per esempio, sono contentissimo quando vedo Juliette Binoche in una commedia francese che ha successo, perché capisco che adesso Juliette ha la possibilità di fare film più ambiziosi, più complessi con registi internazionali. Lei si crea il suo spazio di libertà, come fa Kristen quando prende parte ad un film di fantascienza per mantenere vivo il rapporto con il pubblico e poi utilizza ciò che ha imparato da questa esperienza per fare ciò che vuole.
In Personal Shopper tutti si mandano messaggi di testo. Ci si scrive moltissimo, di continuo. Perché ha deciso di girare un film dove ci si parla solo in questo modo? Crede che in futuro diventerà la forma di comunicazione prevalente?
Non è il futuro, è il presente. Il nostro smartphone è il prolungamento della nostra mente. Io non sono molto interessato al messaggio in senso stretto ma al modo di comunicare, poiché cambia l’identità umana. In Personal Shopper racconto anche il modo in cui ci istruiamo attraverso il web. Questa è veramente una cosa importantissima, profondissima. Una rivoluzione moderna dell’individuo. Non è solo la dimensione della comunicazione ma anche quella della memoria: internet è la nostra memoria “portatile”, un hard drive esterno. Abbiamo la totalità della conoscenza umana in tasca. È un tema che non viene analizzato, ma è il cambiamento più importante che stiamo viviamo. È una delle più grandi rivoluzioni della storia.
È riuscito a creare suspence sfruttando la modalità ‘aereo’ dello smartphone; ecco un’altra rivoluzione…
Quella scena è stata difficilissima. L’abbiamo girata milioni di volte:il tempismo non era mai perfetto. È stata una delle più grandi sfide del film. Anzi, riprendere il telefono di Maureen è stata in assoluto la più grande sfida. Alla fine ho deciso di rallentare l’arrivo della comparsa dei messaggi sul telefono, anche per dare una sensazione di straniamento allo spettatore.
Lei anni fa ha fatto una miniserie, Carlos, e oggi sono sempre più i grandi registi cinematografici che si si misurano con la serialità televisiva. Se ne avesse la possibilità, le piacerebbe fare una serie di nove, dieci puntate?
Allora, innanzitutto ci tengo a dire una cosa su Carlos: non è una serie televisiva…
Una miniserie in tre puntate da quasi due ore l’una…
Ribadisco in maniera netta che Carlos è un film. È un film di cinque ore e mezza. Non lo avrei fatto per il cinema perché non potevo; ho potuto girare Carlos grazie ai finanziamenti televisivi. Però credo che vada visto al cinema, seduto in una sedia del cinema, con una o due interruzioni. Anzi, meglio una sola…
Quindi l’idea di un progetto televisivo non le interessa?
No, non mi interessa perché non è il mio metodo di narrazione. Non mi piace questa idea di “movimento perpetuo”. Non mi piace l’idea di qualcosa senza fine. Io sono interessato alla nozione di drammaturgia, a una certa concisione nelle pratiche narrative. Poi soprattutto sono attaccato alla proiezione in sala. Io giro ancora su pellicola, per il cinema, per il grande schermo. Chiaramente i film possono essere visti sul telefono o un iPad, però credo che sia uno spreco.
Ci sarà un terzo film con Kristen Stewart?
Spero assolutamente di sì. Noi lo vogliamo fare ma ancora il film non è “arrivato”. Lo devo trovare.
Invece sul nuovo film di Roman Polanski, con il quale ha collaborato alla sceneggiatura, può dirci qualcosa?
Sì, però c’è poco da dire. Il film non l’ho visto, è ancora in fase di montaggio. È l’adattamento di un romanzo e io ho svolto un semplice lavoro di scrittura. Ho lavorato a una prima trasposizione da solo; è stato un vero e proprio lavoro di “condensazione” del romanzo. Ho poi fatto un secondo adattamento per Roman, diverso dal film che avrei fatto io sulla stessa opera.
Conosceva Polanski già da prima? Cosa ne pensa di lui come regista?
Lo conoscevo, sì; l’avevo incontrato qualche volta. Ovviamente mi piace. Come per tutti gli artisti, però, penso che ci siano cose che mi piacciono di più e cose che mi piacciono di meno. Ma lui è molto simpatico. È stato un piacere immenso lavorare con lui. È un cineasta di un’altra epoca, ho avuto la netta impressione di lavorare con un regista appartenente ad un periodo diverso del cinema. È un’esperienza molto interessante.
Olivier, lei ha iniziato come critico musicale e cinematografico. Le piacerebbe girare un film o un documentario su una delle band a lei più care, un po’ come ha fatto Jim Jarmusch con Gimme Danger, il suo lavoro sugli Stooges presentato a Cannes?
Sono davvero invidioso di Jim. L’avrei fatto con piacere. Devo essere sincero: mi piacerebbe moltissimo farlo, ma non penso che accadrà mai. Ci sono pochi complessi con una storia interessante come quella degli Stooges. C’è un personaggio (Iggy Pop) e soprattutto una band che quando ha cominciato nessuno riusciva a comprendere. Le persone non capivano che cosa facessero. Ci è voluto molto tempo. Ho una grande ammirazione verso i registi che hanno realizzato dei grandi film di “montaggio” sulla musica, come il film di Scorsese su Bob Dylan (No Direction Home, documentario del 2005 trasmesso dalla PBS come parte del programma televisivo American Masters – ndr). Non ho ancora visto quello di Jim sugli Stooges ma sono molto curioso. Mi è anche stato commissionato un film sui Velvet Underground ma non l’ho diretto perché in quel momento volevo fare Personal Shopper.
Anche perché Kristen Stewart si è liberata prima del previsto, vero?
Esatto. È successo che volevo girarlo subito dopo averlo scritto, perché io volevo un film con un’ambientazione estiva, volevo la natura, una presenza calda. Ma Kristen è stata chiamata da Woody Allen per Café Society e per ovvie ragioni ha preferito fare prima il suo film e poi il mio. Aveva l’impressione che se avesse fatto prima Personal Shopper sarebbe stata in uno stato di tensione non compatibile con il personaggio che doveva interpretare nel film di Allen. Ha girato con Allen d’estate e poi abbiamo lavorato in autunno.
Pare che la Stewart sul set sia un’attrice molto istintiva. Ha detto di aver letto il copione solo una volta prima di decidere di collaborare con lei, e di aver deciso subito di voler costruire il personaggio sul set, girando.
Assolutamente sì. Funziona davvero così. È giustissimo. Siamo due tipi molto istintivi. Mi piace molto parlare del mio lavoro, anche in senso teorico come stiamo facendo adesso, ma quando scrivo e quando sono sul set non sono così. Diventa un lavoro istintivo, fisico. Il modo di lavorare di Kristen è analogo al mio, per questo lavoriamo bene insieme.
Quindi per lei anche il metodo di scrittura è istintivo?
In Personal Shopper in realtà è come se ci fosse un solo personaggio, perché tutto quello che è intorno a lei è “fantasmatico”. Kristen ha spazio per improvvisare, può gestire il suo ritmo, il suo corpo. Io sono molto attento a quello che fa per essere coordinato con lei, per seguirla. In questo senso la scrittura deve comunque lasciare spazio a quello che succede sul set, quindi, mentre in alcuni passaggi è molto definita, in altri deve “respirare”. Ho una grande fiducia nella struttura originaria del film, tuttavia credo di più nell’evoluzione della scena e non della sceneggiatura in senso assoluto.
Eppure per molti cineasti avere il controllo totale sin dall’inizio è fondamentale. C’è una sua profetica pellicola del 2002, Demonlover, che si regge interamente sull’idea dell’ossessione per il controllo come perversione sessuale, e i punti di contatto con Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini sembrano molti. C’è qualche influenza Pasoliniana nel suo immaginario cinematografico?
La connessione esiste, nel senso che ho un’immensa ammirazione per Pasolini e sicuramente nella mia filmografia è presente una pellicola dove ho provato a seguire la direzione di ciò che mi disturba di più, nella visione e nell’immaginazione dell’evoluzione del mondo. Anche in modo politico. Devo dire che sono reminiscenze di quello che ha fatto Pasolini in maniera geniale in un film come Salò. Quando facevo Demonlover avevo proprio Salò come punto di riferimento e di prospettiva. È difficile dire cosa accomuna questi due film, però c’è una voglia di avvicinarsi a qualcosa di molto distruttivo, negativo nel funzionamento dell’inconscio collettivo. Il soggetto era la colonizzazione della fantasia sessuale da parte dell’immagine industriale, che fino a questo punto non era alienata. C’è un’evoluzione, un’apertura delle possibilità date da internet che, messa in relazione con le nostre immagini fantastiche, genera una forma di alienazione supplementare.