Con l’episodio andato in onda domenica scorsa Homeland ha chiuso la sua sesta stagione, confermandosi come una delle serie più sorprendenti degli ultimi anni. Non era scontato: arrivare a quota sei è un traguardo tanto ambizioso quanto insidioso per qualunque produzione seriale. Eppure la serie creata da Howard Gordon e Alex Gansa, ispirata alla fiction israeliana Prisoners of War di Gideon Raff, può vantare di aver superato anche quest’ultimo ostacolo senza uscirne particolarmente ridimensionata. E il segreto è stato forse quello di un ritorno alle origini e di un superamento dei caratteri che l’avevano contraddistinta nelle ultime stagioni.
Profezie mancate?
Negli anni infatti Homeland è passata alla storia come una serie profetica. Nel lungo elenco degli “anticipi” sulla realtà ci sono due episodi particolarmente clamorosi: nella terza stagione aveva previsto l’accordo sul nucleare tra Stati Uniti ed Iran con circa 18 mesi in anticipo mentre nella penultima stagione (la quinta) aveva previsto un attentato dell’ISIS a Berlino, fatto poi realmente accaduto nella capitale tedesca lo scorso dicembre. Per questo motivo Homeland, soprattutto nelle ultime tre stagioni, è stata la spy-story più vicina al realismo geopolitico, capace di intrecciare attualità e trovate di sceneggiatura che mano a mano si sono rivelate più che fondate. La sesta stagione però è partita con un assunto di base profondamente lontano dalla realtà: che sia stato un calcolo sbagliato o una precisa svolta narrativa non ci è dato saperlo, come non ci è dato sapere come sarebbe stata strutturata la stagione appena terminata con al centro una figura ispirata a Donald Trump. Intendiamoci: il POTUS c’è ed è un personaggio fondamentale dello script, ma a vestire i panni del Presidente (eletto ma non ancora insediato) è una donna (Elizabeth Marvel), che a molti ha ricordato Hilary Clinton o almeno un suo riflesso lontano. La scommessa di prevedere il futuro questa volta Homeland sembrava averla persa in partenza. Eppure, seguendo con attenzione tutti i 12 episodi, sono emersi impianti narrativi che non hanno deluso affatto le aspettative del pubblico e hanno confermato la capacità di Homeland, del tutto unica, di indagare e discutere dell’attualità attraverso la finzione. Bastava saper aspettare.
Il nemico interno
Se infatti per la prima volta il nemico di turno diventa “interno”, profondamente radicato nell’establishment americano e nella stessa agenzia di intelligence, dall’altra fanno capolino temi profondamente attuali e, se vogliamo, profondamente trumpiani: le fake-news, gli imbonitori di Stato, i bot e le nuove tecnologie al servizio della post-truth e della manipolazioni delle notizie da dare in pasto ad un popolo sempre più furioso. La guerra si fa invisibile, etica e sottilmente politica, tanto che sono chiarissimi se non quasi calcati gli echi di House of Cards e dello scontro fra i poteri dello Stato attraverso cospirazioni governative. Il terrorismo islamico, trait-d’union dell’intera serie, rimane sullo sfondo ma quest’anno diventa pretesto e spauracchio, uno specchio per le allodole. La svolta è chiarissima: nel momento in cui tutto il mondo guarda l’America di Trump anche Homeland decide di voltare lo sguardo su di essa, indagando le storture del sistema e mettendo in dubbio lo stesso intoccabile tabù della “sicurezza nazionale”. Il ritorno alle origini coincide forse in questo: in un’accelerazione degli eventi senza per necessità rispettare le cronache ufficiali (o cercare di prevederle) ma facendo leva su quegli stessi contenuti che le veicolano.
L’evoluzione dei personaggi
Più che una svolta vera e propria, la sesta stagione di Homeland mira a ibridare sapientemente la realpolitik con la fantapolitica. Gli stessi protagonisti della serie subiscono una radicale trasformazione psicologica, con le debolezze e i punti oscuri dei characters che qui sono elevati all’ennesima potenza: il microcosmo intimo di Carrie Mathison (Claire Danes) esplode nel rapporto con la piccola figlia Franny, la saggezza pacifica di Saul Berenson (Mandy Patinkin) emerge in tutta la sua positività mentre l’ambiguità machiavelliana di Dar Adal (F. Murray Abraham) scopre finalmente le carte. Ma è Peter Quinn (Rupert Friend) il vero fulcro della storia, il crocevia fra passato e presente, fra alleati e nemici: l’unico personaggio privo di riferimenti pubblici e privati, rimasto in equilibrio eppure fortemente squilibrato. La straordinaria prova attoriale di Friend, capace di rendere al meglio il malessere fisico e mentale del suo personaggio, è da segnalare forse come una delle migliori interpretazioni degli ultimi anni nel panorama televisivo. La sua parabola in tutta la stagione coinvolge e porta il pubblico a empatizzare con lui: dall’inizio alla fine è lui il protagonista assoluto.
Nonostante alcuni buchi narrativi e incastri non proprio riusciti, Homeland passa dunque brillantemente a essere una spy-story quasi didattica al thriller politico quasi distopico. Le ultime scene dell’episodio finale (scritto proprio da Alex Gansa), oscure, spietate e scioccanti, ci lasciano immaginare che la strada è tracciata anche per la prossima stagione. Forse di fronte all’imprevedibilità delle recenti vicende mondiali l’unica strada percorribile rimane questa: smettere di inseguire il presente e raccontare futuri. Se non quelli possibili, almeno quelli nerissimi.