Su Fox è tornata Outcast, la serie ispirata ai fumetti scritti da Kirkman (creatore di The Walking Dead) e illustrati da Paul Azaceta. Dopo una prima stagione non del tutto convincente ecco che torniamo a Rome, nel West Virginia, con un balzello temporale che risulta un po’ deludente.
Il finale della prima stagione vedeva Kyle e sua figlia Amber in fuga dalla loro città, fermi a fare benzina e letteralmente circondati da posseduti. Sembrava uno di quei finali destinati a riaprirsi là dove ci si era fermati, e invece non succede niente. O meglio, succede che capiamo che i posseduti non sono solo a Rome, ma ovunque Kyle vada e quindi tanto vale non scappare più.
L’episodio 2×01 tira un po’ le fila della stagione precedente, sottolineando che i protagonisti in sole 10 puntate sono cambiati, cambiati molto ma sempre in modo un po’ gratuito.
Forse la percezione – pesante – della mano degli autori dipende proprio dall’argomento trattato. La possessione è imprevedibile tanto quanto la follia; protagonisti folli – o posseduti – sono difficili (se non impossibili) da raccontare senza che il tutto sembri il risultato di una forte volontà d’autore. I dieci minuti di possessione di Megan sul finale della prima stagione non possono essere spiegati se non con la predestinazione di Kyle. In sceneggiatura, uno dei patti che si stringe col pubblico riguarda la possibilità di immedesimazione dello spettatore o, quanto meno, la comprensione delle regole del gioco.
Detto questo: chi di noi riesce a mettersi nei panni di un posseduto? Speriamo nessuno, e il problema non sta nel Male che si arriva a compiere ma nella natura imprevedibile della possessione. Facciamo degli esempi: Dexter non è certamente uno stinco di santo, ma noi possiamo condividere il suo punto di vista, perché i suoi omicidi rappresentano il grado estremo di una volontà condivisibile che è quella di fermare un serial killer. Se ci chiedessero di cucinare e spacciare metanfetamina probabilmente non lo faremmo, ma se – come per Walter White – in ballo ci fosse un tumore maligno e la responsabilità di assicurare un futuro economicamente stabile alla nostra famiglia, davvero diremmo di no? E ancora: in The Walking Dead il gruppo di Rick ha ucciso nel sonno un intero avamposto dei Salvatori. Siamo certi che se la storia fosse raccontata al contrario, con il punto di vista di Negan, non staremmo dalla sua parte?
Mentre nei tre esempi citati la malvagità pare essere una scelta dei personaggi, Outcast si prende una responsabilità (troppo) grossa, che è quella di raccontare il Male che alberga nell’uomo attraverso un elemento del tutto casuale come la possessione, che non ha a che fare con la volontà dei personaggi. Ecco perché il motore narrativo della nuova serie ispirata a Kirkman non risulta abbastanza convincente.
Inoltre si percepisce un problema anche negli obiettivi del protagonista: per cosa combatte Kyle? Per salvare la moglie? La propria famiglia? L’umanità? E davvero Sidney è il massimo che possiamo concepire come antagonista?
Fino ad ora Outcast ha alternato la lentezza nel centrare il punto della situazione a una eccessiva velocità dell’evoluzione dei personaggi. Siamo un po’ spaesati: prima di scoprire chi altro Kyle prenderà a cazzotti sarebbe il caso di cominciare a capire perché debba farlo.
Outcast 2: la recensione della première di stagione
Torna la serie ispirata al fumetto di Robert Kirkman, che sembra non riuscire a costruire empatia con le motivazioni del protagonista.