Andare in sala a vedere un film Israeliano sembra uno di quegli atti di coraggio riservati solo ai cinefili più motivati, ed è da Israele che viene la pellicola di Asaph Polonsky distribuita a partire dall’11 maggio da Parthénos: Una settimana e un giorno. Tutti noi abbiamo (anche se inconsciamente) dei preconcetti, delle etichette mentali difficili da rimuovere, in ogni ambito della nostra vita e del nostro sapere. Ovviamente anche il cinema che decidiamo di vedere è influenzato da questi processi mentali.
Opinione comune vuole che il cinema israeliano, visto dal pubblico occidentale, assomigli a qualcosa che si aggira sempre intorno alla guerra, alla discriminazione, alla sofferenza umana. La realtà cinematografica naturalmente è ben diversa (considerando anche i pochissimi titoli che arrivano nelle nostre sale che rendono la visione estremamente parziale); la storia di Una settimana e un giorno è pronta a decostruire un pezzo alla volta i nostri preconcetti cinematografici.
Il titolo fa riferimento alla rituale settimana di lutto della tradizione ebraica che dovrà essere seguita da Eyal (Shai Avivi) e Vicky (Eugenia Dodina) dopo la morte del figlio. La pellicola racconta la rielaborazione di un sentimento che deve rapportarsi a una cultura che decide esattamente il giusto lasso di tempo concesso al dolore. È possibile calibrare una durata universale valida per tutti, oltre la quale non bisogna più essere tristi? In questa settimana, Eyal e Vicky hanno due atteggiamenti molto diversi: lei cerca in tutti i modi di tornare alla sua routine quotidiana mentre il marito si lascia andare a una vita sregolata, fatta di vizi e spensieratezza.
Il risultato è una “black dramedy” in cui la disperazione di due genitori viene affrontata con risate isteriche e comportamenti bizzarri: ci viene mostrato un uomo che si è concesso una pausa esistenziale dal suo essere marito e adulto. Le azioni sono le più comuni di chi soffre: c’è chi mangia, chi fuma, chi rompe degli oggetti in giro per casa; il film non dimentica mai l’ambiente di riferimento ma, al contrario, è proprio questo che rende la pellicola contemporanea senza essere “normo-occidentale”.
La musica ha un ruolo essenziale per tutto l’arco della storia: tutte le scene importanti sono accompagnate da brani dai ritmi forsennati, dai tratti rock, quasi a voler sottolineare il carattere del protagonista che non vuole modellare il suo dolore sulle tradizioni e il buon costume. La sofferenza per una perdita è tra i sentimenti più profondi e complessi dell’animo umano e il regista Asaph Polonsky e i protagonisti del suo film vogliono suggerire che non può esistere una ricetta per affrontarla. Mentre i due protagonisti possiedono una caratterizzazione chiara ed efficace, il vicino di casa della coppia non riesce ad avere una personalità esauriente che possa superare il mero ruolo di spalla comica.
Dopo una settimana (e un giorno) ricca di emozioni ed eventi, due genitori si ritrovano nella stessa casa e sentono la più grande delle mancanze: hanno compreso, però, che non esiste un tempo o una formula per affrontare tale dolore.
Una settimana e un giorno: la precisa durata del dolore (recensione)
Un'originale pellicola israeliana racconta le convenzioni del dolore attraverso la loro negazione, in una black dramedy inusuale e riuscita.