House of Cards, la pluripremiata serie ideata da Beau Willimon, torna su Sky Atlantic (pur essendo originariamente un prodotto Netflix) orfana del suo showrunner storico. A prendere le redini del thriller politico e a scrivere gli episodi 5×01 e 5×02 sono Frank Pugliese e Melissa James Gibson, entrambi già produttori di molte puntate dello show, sceneggiatori non nuovi alle vicende dei coniugi Underwood e con una lunga esperienza televisiva alle spalle (la Gibson si è cimentata anche con l’apprezzatissima serie spy FX The Americans).
I nuovi showrunner segnano il loro debutto facendo leva sull’essenza stessa della serie: la natura predatoria di Frank e Claire Underwood.
Riprendiamo il racconto dove lo avevamo interrotto: Frank (Kevin Spacey) e Claire Underwood (Robin Wright) sono il tandem presidenziale e, pur vivendo come separati in casa – l’amante della first lady, Thomas Yates (Paul Sparks), si aggira ancora per la White House – costituiscono una squadra più che mai affiatata e spietata. Se la quarta stagione si chiudeva con le raggelanti immagini dei due che, davanti al video della decapitazione di un cittadino americano da parte dei terroristi dell’ICO, si ripromettevano di creare il terrore anziché subirlo, ora li vediamo intenti a sobillare un clima di tensione e a voler scatenare una guerra pur di tenere lontani i pericolosi spettri evocati da Hammerschmidt, direttore del Washington Herald (Boris McGiver). Nel frattempo il giovane rivale politico di Underwood, Will Conway (il Joel Kinnaman che abbiamo visto in Suicide Squad), sembra abbia provvisoriamente allentato la propria offensiva, mentre si addensano nubi all’orizzonte per il fido Doug Stemper (Michael Kelly). Purtroppo per il momento non c’è traccia del lobbista Remi Denton (il grandissimo Mahershala Ali, nel frattempo vincitore dell’Oscar per Moonlight) e stando a IMDb non lo vedremo per tutta la stagione.
Con le elezioni di Trump la realtà sembrava aver superato la fantasia, ma lo script di House of Cards riesce a stupire per la sua natura quasi profetica.
L’insediamento alla guida del Campidoglio del miliardario del Queens rimane di certo un azzardo che in altri tempi al massimo ci saremmo potuti aspettare da uno script ucronico, e le accuse di connivenza col ‘nemico’ Russo, i sospetti di manipolazione della consultazione elettorale in accordo con Putin e gli accenti caricaturali tanto del personaggio quanto dei suoi comportamenti rimangono azzardi che nessuno in House of Cards avrebbe potuto o voluto imitare. Rimane il fatto che gli eventi narrati nella prima puntata del quinto ciclo della serie si rivelano inaspettatamente sovrapponibili alla più recente attualità, gettando un’ombra inquietante al pensiero di un parallelismo tra Donald Trump, l’uomo più potente del mondo, e uno dei più spietati villain della televisione.
Il Capitolo 53 si apre infatti con un’irruzione senza precedenti di un presidente Underwood affamato di guerra al congresso degli Stati Uniti, trasformato in un consesso di sottoposti costretti a piegarsi al volere del sovrano, e l’inusuale prepotenza e lo sprezzo di ogni regola e convenzione non può che portare alla mente quello stesso atteggiamento che ha causato una rottura tra Trump e i suoi stessi compagni del Partito Repubblicano.
Lo stesso ricorso alla guerra come ‘arma di distrazione di massa’ – non certo una novità – non può non riportare alla mente le mosse azzardate di Donald Trump dapprima sullo scacchiere mediorientale e poi sul fronte nord-coreano, secondo gli analisti politici motivate dallo scopo di spostare l’attenzione dal Russiagate.
Anche la decisione estrema di Underwood di ordinare la più serrata chiusura dei confini mai vista dagli USA non può che riportare alla mente la linea politica di chi propone un muro al confine col Messico, ma se questo spunto del plot potrebbe esser stato influenzato dalla campagna elettorale di Trump, è la chiusura del traffico aereo voluta nella finzione ad anticipare il famigerato flight ban, il veto sui voli dai nuovi ‘paesi canaglia’ voluto dall’attuale amministrazione a stelle e strisce.
L’onnipresente minaccia terroristica (l’ISIS che troviamo quotidianamente sulle colonne dei giornali nella serie diventa l’ICO) non è certo frutto di un particolare sforzo creativo degli sceneggiatori, ma il regno della paura degli Underwood, intenti a mettere gli americani gli uni contro gli altri pur di mantenere saldamente il potere, non può non portare alla mente la paura del diverso con cui il presidente dall’improbabile chioma bionda sta sobillando le crescenti tensioni razziali interne al paese dello Zio Sam, trasformando la ricchezza di un continente multietnico sin dalla sua nascita in un calderone di intolleranza e neo-maccartismo delazionista.
Il ventilato tradimento di un membro dello staff, nella finzione Seth Grayson e Catherine Durant, riporta alla mente la paura di ‘infedeltà’ che ha portato Trump a tagliare numerose teste, da quella di Steve Bannon al Consiglio Nazionale della Sicurezza a quella ben più scomoda di James Comey alla guida dell’FBI; mentre con un parallelismo un po’ forzato potremmo ricollegare l’eventualità che il passato gay del presidente venga a galla – ci riferiamo ovviamente alla storyline legata a Tim che prende forma nella puntata 5×02 – con il sensazionalismo con cui la stampa USA si è affrettata a spettegolare sul presunto passato omosessuale dell’attuale vicepresidente Mike Pence, fautore della ‘conversion therapy’, per un post virale che faceva leva sulla sua somiglianza con una pornostar gay.
Infine, la tematica della cyber security e degli attacchi informatici, che nella serie prende una piega decisamente inedita, non può che ricordare tanto le discusse incursioni informatiche apparentemente operate dal Cremlino quanto il ransomware WannaCry, che ha dimostrato avere sospette connessioni con gli hacker nord-coreani (già dietro il Sonygate).
Le turbolente vicissitudini della contemporaneità rischiano di contenere l’impatto emotivo degli azzardi narrativi degli sceneggiatori, che, pur essendo inizialmente concepiti per scioccare, finiscono per raccontare il presente.
Considerata la portata inedita delle vicende storiche che si affastellano nei nostri telegiornali, c’è il rischio che per riportare House of Cards alla provocatorietà delle origini gli autori debbano arrivare a osare ancor più che in passato, ma se quella che una volta era fantapolitica si sta in qualche modo trasformando in un ritratto (a tinte fosche e romanzato) del presente, il cambiamento potrebbe anche esser salutato come una naturale evoluzione di un prodotto che, giunto alla sua quinta stagione, potrebbe approfittare della mutata temperie politica per sondare aspetti inediti dei suoi machiavellici protagonisti. La regia di Daniel Minahan (già dietro la macchina da presa per Game of Thrones) per ora ci regala un primo episodio dal ritmo e l’intensità straordinari e un secondo che, prima del sorprendente finale, sembra un lungo filler. La quinta stagione di House of Cards ci regala una partenza a tinte forti, e non vediamo l’ora di scoprire i prossimi sviluppi narrativi.