Dopo esattamente due anni dalla prima proiezione nella sezione Fuori Concorso della 68ª edizione del Festival di Cannes, approda finalmente nelle nostre sale l’opera prima di Natalie Portman, una storia commovente di una famiglia ebrea scappata dall’Europa in Palestina per sfuggire alle persecuzioni naziste, che vede la famosa attrice in veste di interprete e sceneggiatrice oltre che regista.
Tratto dal bestseller mondiale e autobiografico dell’israeliano Amos Oz (Una storia di amore e di tenebra), Sognare è Vivere (A Tale Of Love And Darkness) non se ne discosta eccessivamente e racconta l’infanzia dello scrittore durante gli anni difficili di Gerusalemme, tra la fine del mandato britannico e la nascita dell’attuale stato di Israele.
Amos a quei tempi era un bambino di 10 anni, spensierato, molto sensibile e profondamente affascinato dalle storie avventurose che i libri sapevano consegnare alla sua innata curiosità. Viveva con il padre Arieh, uno scrittore intellettuale e appassionato di semantica e la madre Fania (Natalie Portman), una giovane donna innamorata di arte e letteratura che era solita intrattenerlo con racconti inventati di affascinanti viaggi nel deserto, anche se spesso angoscianti e ambigui. È proprio sulle spalle di lei che si articola tutto l’impianto narrativo del film: il personaggio interpretato magistralmente (come se fosse il caso di ribadirlo) da Natalie Portman è infatti il fulcro di una sceneggiatura stratificata su più livelli temporali, tra presente e passato.
È Amos stesso a introdurre il racconto della madre, mentre ormai stanco e in età avanzata vaga per le strade consunte di una Palestina deserta. I ricordi di un passato nostalgico riaffiorano vividi sullo schermo e attraverso i suoi occhi di bambino innocente si assiste al travagliato declino psicofisico di una donna le cui promesse sono state inevitabilmente infrante. Fania da piccola sognava infatti di poter vivere un’esistenza serena, lontana da quel paesino ucraino opprimente in cui nacque e magari trovare quell’amore passionale che Cèchov e Tolstoj descrivevano nei romanzi cui era solita leggere. L’incanto iniziale conseguente al trasferimento in quella terra da tempo immemore promessa agli ebrei a fianco di un uomo intelligente e acculturato come Arieh, si trasforma così in una disillusione poco sopportabile. Intellettualmente soffocata e infelice della vita coniugale a Fania non resta che badare alla casa e alla famiglia e gli unici momenti in cui potersi veramente esprimere rimangono quelle storie di libertà che spesso va raccontando al figlio, come se in qualche modo riuscisse e potesse comprendere il suo malessere.
Il tracollo emotivo che la porterà alla morte per suicidio (come ci viene annunciato nei primi minuti del film) ha inizio dopo la dichiarazione da parte dell’ONU della nascita dello Stato d’Israele nel 1948. A seguito di quell’evento infatti la compagine di estrazione musulmana palestinese – meglio nota come Lega Araba – insorse contro il moderno stato ebraico, dando origine a una serie di conflitti bellici le cui ostilità sono proseguite incessantemente sino ai giorni nostri. Il sogno di Fania di ricominciare da capo e costruirsi un futuro migliore sulle basi di una nazione finalmente riconosciuta ufficialmente, si sgretola così piano piano, giorno dopo giorno. E mentre la guerra prosegue coinvolgendo vittime innocenti come donne e bambini, lei scivola nella depressione e nella solitudine. A nulla varrà la presenza costante del figlio.
Se da un lato quindi il film ci restituisce efficacemente lo spaccato storico e geopolitico di quegli anni bui nel medio-oriente – riflettendoli nell’ottica di una madre annichilita dalla realtà in cui è costretta a vivere – dall’altro lato pecca forse di un’eccessiva (e superflua) drammaticità nell’impianto scenico e narrativo. La fotografia oltremodo patinata e l’impostazione quasi teatrale dei dialoghi ci restituiscono in questo senso una trasposizione artificiosa e forzata di un soggetto invece delicato come il romanzo di Amos Oz e la questione palestinese. Non è da trascurare però una certa capacità di messa in scena che la Portman dimostra a più riprese (e con manualità non indifferente) al suo primo film da regista. In sala dall’8 giugno.
Sognare è vivere: arriva in sala il debutto alla regia di Natalie Portman (recensione)
Natalie Portman è la regista, sceneggiatrice e interprete principale di un dramma che mira a raccontare vicende personali e storiche.