Il nome di Starz da noi non è noto quanto quello di altri network rivali, ma la rete statunitense negli ultimi anni ha collezionato un successo dopo l’altro; si pensi a Outlander, Black Sails, Power, The Girlfriend Experience e Ash Vs The Evil Dead. Però, nonostante il successo critico dei suddetti show e il forte incremento degli iscritti (che ne hanno fatto il secondo canale premium-cable degli USA), ancora mancava un titolo che fosse in grado di diventare un cult; che garantisse quell’effetto Game of Thrones che ultimamente tutti stanno cercando (anche la stessa HBO di Westworld, che nel 2011 era vicina a produrre proprio American Gods). Sembra che ora Starz abbia fatto centro, e che l’adattamento per il piccolo schermo del romanzo di Neil Gaiman American Gods sia quella ‘next big thing’ capace di garantire alla TV di proprietà di Lionsgate il salto di qualità. Non a caso anche da noi, dove American Gods è distribuito da Amazon Prime, il web service di Jeff Bezos ha registrato un incremento di accessi che non aveva mai visto dal suo debutto nel Belpaese. American Gods non sarà immediatamente accessibile come altri prodotti e non avrà ancora una distribuzione capillare (leggi Netflix), ma nonostante questo è stata capace di imporsi sul mercato con la sua identità adulta, patinata e visionaria.
VECCHI E NUOVI DEI, VECCHI E NUOVI VOLTI
La trama della serie è piuttosto essenziale: il protagonista Shadow Moon (il quasi sconosciuto Ricky Whittle, visto in The 100) esce di galera anzitempo a causa della prematura morte della compagna Laura (Emily Browning, già protagonista di Sucker Punch di Zack Snyder). Una volta fuori di prigione, senza più nulla da perdere, si imbatterà nel carismatico e sfuggente Mr Wednesday (uno straordinario Ian McShane, Pirati dei Caraibi – Oltre i confini del mare, John Wick), che lo assumerà come guardia e assistente personale e con cui intraprenderà un viaggio per l’America che durerà tutta la stagione. Presto però Mr Wednesday si rivelerà essere un dio alla ricerca di alleanze in previsione di una guerra tra vecchi e nuovi dèi alle porte, e il protagonista verrà catapultato in un mondo che stenta a capire.
Sono molte le figure mistiche espressione del passato, tra le quali non possiamo non menzionare Odino/Wednesday, Bilquis (Yetide Badaki), il leprecauno Mad Sweeney (Pablo Schreiber, il pornobaffo di Orange is the new black), il malvagio Czernobog (Peter Stormare, visto tra gli altri in Fargo, Chocolat, Prison Break e John Wick – Capitolo 2), Anubi/Mr Jacquel (Chris Obi, presto presenza regolare in Star Trek: Discovery) e Ostar/Pasqua (Kristin Chenoweth, star di Broadway e series regular in West Wing).
A risultare veramente interessanti però sono i nuovi dèi, quelli cioè che rappresentano l’America contemporanea e che nel loro volersi sostituire alle antiche divinità incarnano lo zeitgeist odierno e, quindi, lo spirito stesso della serie. Tra loro abbiamo Media, dea della comunicazione (la Gillian Anderson di X-Files), il dio della globalizzazione Mr World (Crispin Glover, Alice in Wonderland), il dio della tecnologia Technological Boy (Bruce Langley), e, dopo un cambio di casacca, il dio della guerra Vulcan (Bruce Langley, visto nella longeva police dramedy Psych).
TANTI SOLDI PER GLI SCENEGGIATORI DI LOGAN E HANNIBAL
Il budget di American Gods non è certo risicato: Starz ha investito nello show ben 60 milioni di dollari (7,5 milioni a puntata), una cifra non troppo lontana dalla spesa media di HBO per Il Trono di Spade. Nonostante questo la serie ispirata al libro di Gaiman si prende molte libertà e sperimenta selvaggiamente, con soluzioni d’effetto che però non la rendono certo particolarmente accessibile.
A vedere i nomi degli showrunner, però, non c’è da stupirsi del livello della scrittura: Bryan Fuller è la mente dietro la meravigliosa serie Hannibal (e prossimamente dietro Star Trek: Discovery) mentre Michael Greene è, tra le altre cose, sceneggiatore di Logan e di Blader Runner 2049. A dare una mano per lo script c’è inoltre lo stesso Neil Gaiman (ad esempio il personaggio di Vulcan è stato da lui pensato appositamente per la TV).
L’approccio scelto per raccontare la storia è particolare e, nonostante risponda alla necessità di introdurre i numerosissimi personaggi e di preparare agli sviluppi futuri, finisce per dare l’impressione che ci sia troppa carne al fuoco, mettendoci davanti a un lunghissimo road movie a puntate in cui non mancano i colpi di scena ma in cui non si conclude sostanzialmente niente. Complice di questa sensazione di incompletezza è probabilmente la brevissima durata della stagione, che solo quando si giunge all’ottavo e ultimo episodio sembra porre le basi per un arco narrativo più soddisfacente. Nonostante questo, è difficile resistere al fascino della serie.
UNO STILE POP MA COLTO, TRA TEATRO GIAPPONESE E FUMETTI
La vera forza di American Gods è il suo stile inconfondibile, che costruisce un mondo immediatamente riconoscibile e intrigante a cui si perdonano VFX a volte decisamente scadenti, soprattutto alla luce del budget (si pensi a quando Mr Nancy/Anansi assume la forma di un ragno che sembra uscito da un film della Asylum).
La peculiarità del linguaggio con cui è girata serie lo rende immediatamente percepibile come ‘strano’ e ‘non familiare’, ma anche dopo la visione dell’intera stagione si ha una tale stratificazione di elementi pop e colti che risulta estremamente difficile incasellarlo.
La componente più importante di American Gods è probabilmente la scelta di radicarsi nella cultura fumettistica in un modo diametralmente opposto a quanto visto sino ad oggi al cinema o in TV. Se infatti generalmente, nell’adattare un fumetto, si cerca di ripensare in chiave meno kitsch o più realistica soluzioni che funzionano sulla carta ma stonerebbero sul grande schermo, qui l’operazione creativa va in tutt’altra direzione. Nonostante non ci sia un comic di riferimento, sembra che l’intenzione dei creatori sia quella di estremizzare oltre ogni convenzione, optando per un’iconografia da fumetto che trasfiguri in archetipo anche il più banale degli elementi.
Se però una tale scelta sembra avvicinare alla cultura più digeribile e commerciale, la scelta di accompagnarvi un commento sonoro proveniente direttamente la teatro kabuki giapponese crea un mood straniante; con cui Brian Reitzell sceglie di apportare mistero all’insieme, a sacrificio di una scorrevolezza non sempre ideale.
La fotografia gioca tanto con colori acidi à la The Neon Demon che con le tinte terrose tipiche dei road movie, ma l’elemento che colpisce e caratterizza più di ogni altro l’esperienza visiva è l’uso sistematico del macro per scandire con immagini del piccolissimo una storia che mira al grande respiro. Una scelta inusuale ed efficacissima, che sembra sempre suggerire un sostrato di realtà che ignoriamo nella nostra vita quotidiana. Paradossalmente il cinematographer Jo Willems ha potuto fare un lavoro molto più interessante con un prodotto televisivo che con l’ambiziosa saga di The Hunger Games.
DIETRO LA MACCHINA DA PRESA CELEBRI REGISTI DI VIDEOCLIP E HORROR
Dietro l’atmosfera lisergica e glam della serie ci sono registi i cui curriculum sembrano essere la quintessenza dello spirito di American Gods, tra clip musicale, fantasy horror e drama.
I primi tre episodi vedono infatti dietro la macchina da presa il talentuosissimo David Slade, che non solo ha firmato gli ottimi Hard Candy e 30 Days of Night (gli perdoniamo Twilight: Eclipse), e per la TV Hannibal e Breaking Bad, ma che soprattutto ha un curriculum di tutto rispetto come autore di videoclip, avendo confezionato i memorabili video di New Born e Bliss dei Muse e avendo collaborato con Aphex Twin, Stone Temple Pilots, Tori Amos, System of a Down, Skin e The Killers.
Curriculum affine anche quello della leggendaria Floria Sigismondi, che, dopo esser diventata celebre con l’iconico video di The Beautiful People di Marilyn Manson, ha girato per David Bowie, Bjiork, Muse, Robert Plant e Jimmy Page, Leonard Coen, The Cure e mille altri, avvicinandosi recentemente anche alla regia televisiva (Daredevil, The Handmaid’s Tale).
C’è poi un altro italiano naturalizzato canadese – come la Sigismondi – a firmare l’episodio più eccentrico della stagione (Lemon Scented You, quello in cui la Anderson appare nei panni di David Bowie/Ziggy Sturdust), ed è il grandissimo Vincenzo Natali, regista di horror di culto come Cube e Splice, e per la TV regista tra gli altri di Westworld, The Strain, Wayward Pines e ancora una volta Hannibal.
Nella director’s list di Hannibal figura anche Adam Kane, che completa il parco registi di American Gods insieme a Craig Zobel.
LA SIGLA È DELLO STESSO AUTORE DI QUELLE DI WESTWORLD E TRUE DETECTIVE
Impossibile poi parlare di American Gods senza citarne la meravigliosa sigla, che miscelando simboli sacri, atmosfere trance e luci al neon crea sin dall’inizio di ogni puntata un’atmosfera ammaliante e multietnica. Il merito di un così eccellente lavoro va a una professionalità che troppo spesso resta nell’ombra ma invece meriterebbe un riconoscimento pubblico all’altezza del suo lavoro. Parliamo dell’art director Patrick Clair, il cui stupefacente curriculum annovera anche titoli di apertura iconici come quelli di True Detective, Westworld e Daredevil, ma anche quelli di The Crown, The Man In The High Castle, The Night Manager e Halt and Catch Fire. Probabilmente il più grande talento vivente del settore.
In conclusione American Gods è una sarabanda di talenti, stimoli, idee e spunti visionari, la cui natura selvaggiamente creativa (ai limiti del caos) finisce per scontrarsi con le aspettative di spettatori abituati ad archi narrativi più gratificanti. L’assenza di una dinamica di sviluppo più tradizionale, tuttavia, è avvertibile ma non penalizza il risultato d’insieme, che soprattutto alla luce del finale di stagione promette un’evoluzione capace di regalare grandi soddisfazioni – e magari una maggiore empatia con i personaggi. Se Fuller e Greene riusciranno ad alzare la posta emotiva, magari anche con l’aiuto di un commento musicale più convenzionale, e a contenere l’ambizione di raccontare troppi personaggi tutti insieme, a beneficio di un focus più tridimensionale sui protagonisti principali, allora marceranno spediti verso il capolavoro. Per ora si rimane incantati e stupefatti, ma con il sospetto che l’eccentricità prevalga sulla sostanza.