Micheal Bay è uno dei registi più controversi del cinema contemporaneo, ma tale reputazione non è dovuta alla scelta di soggetti scomodi o provocatori, né a una poetica particolarmente criptica, anzi: ad alimentare la contraddittorietà di Bay è il suo linguaggio cinematografico fracassone, eccessivo ai limiti del dozzinale e dalla vocazione spudoratamente commerciale.
Un cinema che i critici amano odiare ma che puntualmente il pubblico premia al botteghino.
Il cinema di Bay è così riconoscibile da esser diventato sinonimo di esplosioni e scene d’azione di proporzioni gargantuesche, una cifra stilistica così scevra da compromessi da arrivare a lasciare un segno nella cultura pop con parodie e meme di ogni sorta (vi rimandiamo al video in fondo alla recensione).
Il regista statunitense ha fatto dell’americanata una vera missione, ma nonostante pellicole spesso confuse, chiassose e di nullo spessore intellettuale, non si può negare che abbia un estro caratteristico nella direzione dell’azione né si può sostenere che difetti di carattere e identità.
Quando dietro la macchina da presa c’è Michael Bay, si vede.
Con un curriculum imbottito di tritolo ed una tale vocazione al blockbuster, non sorprende che sia stato il suo nome ad essere scelto ormai un decennio fa per dirigere la trasposizione cinematografica di una proprietà di successo come quella dei Transformers.
Fin dal debutto della saga dei robottoni, in molti hanno criticato la scelta di proporre sceneggiature debolissime accompagnate da un’azione esagerata e priva di logica, e col passare del tempo questo genere di osservazioni non ha potuto che farsi sempre più convinto e frequente, tanto che sembrava il quarto capitolo potesse essere l’ultimo.
Nonostante questo scetticismo però, fin dai primi trailer Transformers – L’ultimo cavaliere sembrava aver risvegliato un certo interesse.
Con una campagna promozionale costruita su ambientazioni medievali con draghi meccanici, un pianeta robotico in collisione con la luna, un Optimus Prime apparentemente schieratosi con il nemico, e, soprattutto, un Anthony Hopkins a far da narratore, l’odio mediatico e la diffidenza nei confronti della pellicola si sono trasformati progressivamente in viva curiosità, complici le dichiarazioni di Bay sulla sua volontà di chiudere con questo quinto episodio il suo percorso nel franchise. Un gran finale che al contempo ponesse le basi per un futuro senza il suo creatore.
Fin dove sarebbe riuscito a spingersi Bay, stavolta?
Ora che abbiamo finalmente visto Transformers – l’ultimo cavaliere, possiamo darvi una risposta e dirvi che nonostante la pellicola finisca per sembrare inizialmente l’ennesima riproposizione del solito schema, nasconde nella sue sovrabbondanza di linee narrative e VFX un fascino perverso che quasi la nobilita.
Dopo un originale e sorprendentemente ben girato retelling della leggenda di Re Artù con elementi meccanotronici, Trasformers – L’ultimo cavaliere continua riproponendo lo stesso set-up dei film precedenti: uomini e macchine sono sull’orlo della guerra e un reparto militare governativo specializzato nella cattura dei robot. In questo contesto gli Autobot, guidati dall’eroe del film precedente, Cade Yeager (Mark Wahlberg), sono costretti alla latitanza, con il governo USA e i Decepticon alle calcagna e il loro leader, Optimus Prime, perso fra le stelle. Starà proprio a Yeager condurre i robot alla salvezza e, grazie all’aiuto della giovane Izabella (Isabela Moner), della professoressa Vivian Wembley (Laura Haddock) e del saggio Sir Edmound Burton (Anthony Hopkins), prepararli alla più grande minaccia che la terra abbia mai visto: Quintessa, dea malvagia di Cybertron intenzionata a prosciugare la terra della sua linfa vitale.
Il film presenta gli stessi difetti dei suoi predecessori: trama blanda e ripetitiva, narrativa confusa e tempisticamente mal gestita, cliché a non finire, ma soprattutto, caratterizzazione dei personaggi al limite dell’offensivo (soprattutto quelle dei Transformers, praticamente degli stereotipi d’acciaio ambulanti).
Tuttavia, per quanto possa risultare difficile crederlo, fra questo cumulo di detriti robotici si cela qualcosa di inaspettato e piuttosto sorprendente. Non stiamo parlando delle ambientazioni medievali (in fin dei conti valide), degli effetti speciali magistralmente eseguiti o delle scene d’azione (ottime anche se ripetitive), bensì di una caratteristica più complessa della pellicola: la sua capacità di trascendere se stessa.
Chi conosce Michael Bay sa perfettamente i difetti ed i limiti della sua regia e anche quanto poco il regista sia propenso a venirvi a patti, ma in Transformers – L’ultimo cavaliere la cosa prende una piega inaspettata: il regista decide di farsi forte di tutti i suoi risaputi limi e di enfatizzarli ed elevarli al cielo, trasformando di fatto la pellicola in un archetipo della Hollywood contemporanea.
Guardare Transformers 5 è come assistere a un metaforico incidente d’auto del proprio ‘peggior nemico’.
Sai che non dovresti gioirne, che dovresti distogliere lo sguardo, ma non puoi fare a meno di osservare con attenzione e con un sorriso inappropriatamente beffardo sulle labbra; in poche parole sai che non dovrebbe divertirti, eppure lo fa.
Verrebbe spontaneo pensare che Bay abbia cercato l’intrattenimento con scene d’azione zeppe di esplosioni – come sempre – ma in realtà queste passano in secondo piano rispetto a qualcos’altro, o meglio, qualcun altro: Anthony Hopkins, che nonostante gli evidenti limiti della pellicola trova il modo di essere straordinario. Abbandonata l’ambizione di confezionare una delle sue indimenticabili performance drammatiche, l’attore britannico sembra essere il primo a divertirsi, finendo per dare forma a un personaggio irresistibile, carico di un humor assurdo e fantasticamente over the top.
Oltre alla “ricetta Bay” elevata allo stato dell’arte e alla solidissima performance del grande interprete inglese non c’è in realtà molto altro da dire su Transformers – L’ultimo cavaliere, e ancora una volta l’accoglienza di un blockbuster dello statunitense finirà per polarizzare le opinioni e dividere critica e pubblico. Possiamo però concludere dicendovi che l’operazione messa in atto da Michael Bay stavolta è tanto sfacciata e kitsch da trasmettere in modo straordinario quel senso del gioco che è alla base del cinema di intrattenimento Hollywoodiano. Bay si diverte come un bambino che gioca con robottoni, draghi e cavalieri e, forse, non potrebbe esserci un approccio più onesto a una pellicola del genere.