“Guardate queste dieci ore perché potrebbero essere proprio le ultime. Ci sono solo certi tipi di storie che si adattano al tono di Fargo, e a me piace molto raccontarle, ma al momento ho davvero esaurito la mia vena.” I fan di mezzo mondo, dopo aver letto queste parole, non ci volevano credere: a rilasciare la dichiarazione è stato infatti Noah Hawley, lo showrunner della serie FX che, dopo il successo di critica e pubblico ottenuto pochi mesi fa con Legion, è diventato uno degli autori televisivi americani più influenti; lo sceneggiatore ha provato a rettificare aprendo ad una quarta stagione (che però, secondo lui, non sarà pronta prima di tre anni considerando i suoi molteplici impegni) ma la questione rimane aperta: dopo l’annata appena conclusa, Fargo ha ancora qualcosa da dire ai telespettatori? La domanda non è scontata ma, alla luce di quanto ha fatto vedere nel 2017, la risposta è sì. Procediamo però con ordine.
Dopo quasi un paio di anni di distanza dalla seconda stagione, lo show lascia da parte l’ambientazione vintage per ritornare nel ventunesimo secolo.
Nel Minnesota del 2010 ci troviamo ad assistere alla faida che vede coinvolti Emmit e Ray Stussy (entrambi interpretati da Ewan McGregor): diversissimi tra loro (Emmit è un ricco imprenditore di bell’aspetto, Ray un agente di sorveglianza dal look trasandato), il rapporto tra i due fratelli è molto complicato, tanto da indurre Ray, consigliato dalla sua compagna Nikki Swango (Mary Elizabeth Winstead), a chiedere ad un ladruncolo da quattro soldi di rubare a Emmit un prezioso francobollo; le cose però non vanno per il verso giusto, mettendo i due amanti nei guai. Nel frattempo Emmit non se la passa meglio perché uno strano individuo, V.M. Varga (David Thewlis), vuole rilevare con tutti i mezzi a disposizione (violenza inclusa) la sua attività e l’imprenditore non ha la forza necessaria per contrastarlo ma, in questo caotico scenario d’insieme, entra in gioco il capo della polizia locale Gloria Burgle (Carrie Coon) per far luce su queste strane vicende.
Nonostante la qualità altissima, la terza stagione di Fargo è stata la meno originale e sorprendente.
Non scopriamo certo oggi quanto Fargo sia importante in questa particolare fase della Golden Age seriale: in un panorama in continua evoluzione, dove gli standard imposti ad inizio millennio dai canali via cavo americani (in primis HBO e AMC) vengono sempre di più rimessi in discussione grazie anche alla comparsa di nuovi player come Netflix e Amazon, lo show FX ha avuto un ruolo fondamentale, assieme alla prima stagione di True Detective, nell’inaugurare il nuovo ciclo delle serie-evento (dai budget elevati e cast all-star) che sta monopolizzando l’attuale scenario televisivo. Noah Hawley, con le prime due stagioni di Fargo, è riuscito nell’impresa di rendere giustizia all’omonimo capolavoro cinematografico cogliendo l’essenza dell’opera dei fratelli Coen e dopo l’ottima première non c’era alcun dubbio sul fatto che anche quest’anno il livello qualitativo sarebbe stato altissimo. Diciamo subito una cosa: la terza stagione, se comparata con le altre, può essere considerata come la più “debole” nella storia dello show; questo non vuol dire che sia stata la peggiore ma ci sono degli aspetti che la rendono meno memorabile. Innanzitutto, dal punto di vista dell’originalità, paga il confronto con il suo recente passato: se a livello di trama ricorda molto la prima annata (la donna poliziotto che indaga sulle malefatte di individui mediocri e bizzarri), lo showrunner inserisce alcuni elementi, come ad esempio quello della bad girl, che hanno fatto la fortuna della seconda stagione (la più innovativa di Fargo). Considerando inoltre la scrittura dei personaggi, escludendone un paio, Hawley non riesce a regalarci dei characters principali davvero indimenticabili come il Lorne Malvo di Billy Bob Thornton, il Lester Nygaard di Martin Freeman o la Peggy Blumquist di Kirsten Dunst e ciò penalizza sia la storia che il cast (se Carrie Coon e Mary Elizabeth Winstead riescono comunque a cavarsela Ewan McGregor, nonostante la sua indiscutibile bravura, non riesce a dare quel qualcosa in più nel duplice ruolo dei fratelli Stussy). Ma queste sono solo delle piccole criticità di una stagione che comunque riporta Fargo nell’Olimpo della serialità televisiva per la sua capacità di amalgamare alla perfezione il noir, la black comedy, il poliziesco e il thriller con uno stile assolutamente riconoscibile, unico ed inimitabile (a livello tecnico Fargo, assieme a pochissimi altri prodotti, è la serie più cinematografica in circolazione). Quali sono stati i punti di forza dello show nel 2017? Sostanzialmente due: la componente surreale e i personaggi “secondari” (coeniani al 100%) che hanno spesso e volentieri oscurato i protagonisti, in particolare quello di Sy Feltz (un fenomenale Michael Stuhlbarg) e, soprattutto, quello di V.M. Varga (interpretato da un gigantesco David Thewlis).
Noah Hawley continua a portare avanti con Fargo il discorso sulla rappresentazione del male.
“La beffa più grande che il Diavolo abbia mai fatto è stata convincere il mondo che lui non esiste”. E’ la frase pronunciata da Varga la chiave di volta per analizzare la stagione appena conclusa di Fargo, nonché l’intera mitologia dello show. Tutti noi sappiamo che il punto focale della creatura di Hawley è il racconto del male che, sotto varie forme, con la sua forza deflagrante e destabilizzante si scontra con il bene, sempre rappresentato da figure estremamente positive, semplici e candide (preferibilmente donne). Ebbene, se prima di questa terza stagione il male aveva una connotazione fisica ben precisa (discutibili esseri umani in carne ed ossa), l’entrata in scena del personaggio di David Thewlis cambia drasticamente la prospettiva. Chi è Varga? Apparentemente un uomo dall’aspetto disgustoso che, con i suoi scagnozzi, fa delle pressioni ad un poveraccio senza spina dorsale per i suoi loschi affari. Attenzione però, l’impianto surrealista utilizzato quest’anno da Hawley (accennato già nella scorsa stagione con l’arrivo degli UFO e amplificato nel terzo ciclo dalla presenza del misterioso signore interpretato da Ray Wise) indica Varga più come un’entità maligna (quasi luciferina) che come vero e proprio essere umano (in un paio di occasioni lo vediamo chiaramente). Questa scelta narrativa, in una cornice solo superficialmente realistica (“This is a true story”), evidenzia una cosa: Varga è il male puro che non perde lo scontro con il bene (il finale è molto eloquente, non abbiamo un vincitore) perché, come ci insegna l’antica filosofia cinese, il male e il bene sono lo yin e lo yang, uno non può esistere senza l’altro. Oltre a questa riflessione, la terza stagione è stata importante anche per un altro motivo: Hawley chiude simbolicamente il cerchio facendo chiaramente intuire che, nonostante la struttura antologica, l’universo di Fargo è in realtà strettamente interconnesso, come dimostra il ritorno inaspettato di Mr. Wrench (il sicario sordomuto della prima stagione), decisivo nell’aiutare Nikki Swango ad attuare il suo piano di vendetta.
Noi non sappiamo se la quarta stagione si farà o no (la speranza è l’ultima a morire) ma, a quanto pare, le premesse non sono incoraggianti; Fargo rappresenta un unicum in TV difficile da replicare e la sua probabile chiusura rattrista, come è giusto che sia, tutti i fan e gli appassionati. Tuttavia una domanda sorge spontanea: se Hawley avesse davvero esaurito la sua vena creativa, meglio avere una quarta stagione poco ispirata e deludente oppure conservare il ricordo di un prodotto formidabile conclusosi nel miglior modo possibile? Chi ama Fargo, preferirebbe di gran lunga la seconda opzione.