Diciamocelo pure: per House of Cards, arrivata alla stagione numero cinque, il rischio fin troppo prevedibile era quello di perpetuare un loop ormai noto, con il pericolo inedito di raccontare un immaginario fin troppo datato e superato persino dalla realtà delle cronache presidenziali. La serie prodotta da Netflix è sempre stata una sorta di specchio deformante della realtà, un’escrescenza maligna dell’attuale politica americana, eppure nell’epoca di Donald Trump alla Presidenza USA – quella insomma dell’attualità che supera la fiction politica – la via d’uscita più semplice era che House of Cards passasse ad essere iperbole del reale, pantomima o parodia di quello che alla Casa Bianca ormai avviene quasi abitualmente: minacce di guerre nucleari, nepotismo, rapporti burrascosi con i servizi segreti e in generale una nuova concezione della politica come show dissacrante e massacrante. A conti fatti però i nuovi showrunner Frank Pugliese e Melissa James Gibson scelgono una strada molto più contorta e, nel bene e nel male, meno prevedibile: archiviato un inizio in cui i paragoni con la presidenza Trump la fanno da padroni (ne abbiamo parlato qui), si concedono un poco appassionante trionfo del tecnicismo elettorale e, solo dopo un’interminabile serie di filler ad alto tasso di burocrazia che hanno il sapore del già visto, adoperano un’improvvisa sterzata che – con un’affollata sequela di colpi di scena – riscrive completamente le regole della serie.
Una stagione squilibrata, tra burocrazia e svolte shakespeariane
A dispetto delle similitudini con la realtà e prima di lanciarsi spedita verso gli sviluppi futuri, la quinta stagione di House of Cards ha saputo, in qualche modo, tornare alle origini. Buona parte della parabola narrativa si concentra, come avveniva già nel passato, nel seguire la corruzione del “palazzo”, nei piccoli e nei grandi rapporti di potere fra deputati, correnti e lobby, nelle diaboliche strategie per mettere fuori avversari politici e non ultimo per eliminare le tracce delle nefandezze che Francis Underwood (Kevin Spacey) e sua moglie Claire (Robin Wright) hanno dovuto architettare per stare dove sono adesso. Il cuore del quinto ciclo di episodi torna insomma ad essere profondamente “politico”, a tratti quasi “burocratico”, ben lontano dai toni fantapolitici in cui, ad esempio, era sfociata la terza stagione, che metteva al centro un allargamento dei “conflitti” fuori dal paese, come a “globalizzare” il potere malevolo degli Underwood. Ora si torna pienamente a guardare dentro i confini degli States, a combattere una guerra interna in cui le pedine del grande scacchiere dell’establishment a stelle e strisce entrano tutte in gioco, nessuna esclusa, sacrificando per questo la dovuta grandezza di un’elezione presidenziale, che finisce per sembrare una contesa elettorale di contea sullo sfondo dei giochi di palazzo. In questo ritorno al passato sono però comunque troppe le assonanze con il pregresso, tanto che un sensazione di déjà vu porta lo show a dover affrontare il primo rilevante calo di ascolti e di consenso. Sarà solo nelle ultime quattro puntate che una serie di svolte improvvise ci desterà bruscamente dal torpore proponendo un’audacia narrativa quasi teatrale, decisamente incoerente con i toni verosimili degli episodi precedenti e capace di polarizzare apprezzamento e dissensi degli spettatori, finendo per essere forse la principale speranza per il rinnovo di una serie che altrimenti sembrava esausta.
Distopie e dispotismi
Se il cuore di House of Cards era sempre stata la conquista del potere e l’annientamento dei rivali, la nuova stagione rinuncia all’essenza della storia per spostarne il baricentro, concentrandosi sul difficile mantenimento dei privilegi acquisiti al costo (ingente) di molte ‘vittime collaterali’. La promessa con cui Beaumont aveva chiuso la precedente stagione (quel raggelante “Noi non subiamo il terrore, noi lo creiamo”) viene mantenuta solo in minima parte: il conflitto politico non è mai “dinamico” e l’azione tende quasi allo zero (quasi fino alla fine), e così ci troviamo di fronte ad una guerra di trincea, lenta e logorante (per i protagonisti quanto per gli spettatori), un avanzare metro dopo metro verso il traguardo. C’è tempo quindi di raccontare anche il potere, così come ci aveva abituato Kevin Spacey nelle prime stagioni guardando in macchina, dritto negli occhi degli spettatori; così come c’è tempo di riflettere sulla sua genesi e di filosofeggiare grandi e scomode verità. Ecco allora che il dispotismo di Francis Underwood ci appare fin troppo competente, raffinato e razionale per assomigliare anche lontanamente a quello di Trump.
Cattivi vestiti da buoni, e viceversa
A dispetto delle premesse, la narrazione, sia quando si impigrisce nelle stanze del potere che quando si spinge verso macchinazioni da thriller, rimane quindi felicemente autonoma dai fatti del reale. Ad arricchire il mondo di House of Cards, in questa quinta stagione, non troviamo più – purtroppo – il Remi Denton di Mahershala Ali ma entriamo in contatto con nuovi personaggi capaci di sconvolgere il confine fin troppo esplicito tra il pragmatismo e l’idealismo: in un campo da battaglia fatto di “buoni” contro “cattivi” fanno capolino individui ambigui, perfettamente a proprio agio nelle zone grigie, “cattivi vestiti da buoni” (oppure viceversa) che alimentano la paranoia che ossessiona Francis Underwood e consorte. È il caso della machiavellica Jane Davis (Patricia Clarkson) oppure dello strategia Mark Usher (Campbell Scott), entrambi caratteri con una profondità psicologica e umana fuori dal comune. E poi c’è la nemesi di Underwood, Will Conway (Joel Kinnaman), che viene presto tralasciato dopo un breve percorso che lo trasforma da eroe a vittima di stress post-traumatico. In una delle scene più memorabili della stagione lo vediamo immergersi nella realtà virtuale per combattere i propri fantasmi: la sua è una figura tragica e schizofrenica, potenzialmente una delle più riuscite di tutta la stagione, ma solo grazie alla notevole interpretazione dello stesso Kinnaman, dato che la scrittura – ancora una volta – sembra troppo ondivaga nel suggerire e abbandonare spunti interessanti.
Un gioco di prestigio che forse salverà la serie
A dispetto di un’evidente incertezza al timone della serie, la capacità dei nuovi showrunner di complicare il discorso emotivo dei tanti personaggi entrati a pieno nello scacchiere di House of Cards conferma la volontà di evitare ogni facile via d’uscita, conducendo sommessamente l’eredità di Beaumont a un punto di non ritorno in cui – lì sì – i due autori decidono di rivendicare il proprio ruolo di motori immoti e di porre le fondamenta per una sesta stagione che si prospetta di profondissima rottura. Lungo la maggior parte delle puntate sembra che l’obiettivo dei due sia puntare alla coralità di trame e sottotrame e ad una scomposizione psicologica delle tante tensioni che crescono per tutta la stagione (non sempre supportate da un copione e una regia all’altezza), evitando apparentemente di ridurre il gioco a un Underwood contro tutti. Ma, per l’appunto, è un gioco di prestigio fatto con le carte a loro disposizione. Il risultato finale è, almeno per quanto ci riguarda, molto confortante e affatto scontato. Contro tutte le previsioni sembra che House of Cards ha ed avrà ancora molto da dire, a partire dalla prossima stagione. Netflix ultimamente sta attuando una nuova politica di chiusura delle serie (ne sanno qualcosa i fan di Sense8), ma considerato che House of Cards, una delle primissime produzioni del web service, è al momento l’unica serie che ancora garantisce ingenti introiti extra a causa dei vecchi contratti di cessione dei diritti (in Italia infatti la vediamo su Sky Atlantic), c’è da sperare che le incertezze mostrate in alcuni episodi della stagione non costino allo show la chiusura. Vogliamo scoprire se è arrivato il momento per un tandem di conquista veramente paritario o se è iniziata la stagione del tutti contro tutti.