L’anno scorso fu Comencini con Tutti a casa, e quest’anno sarà la volta di Rosita, travagliato film del 1923 diretto da Lubitsch e (forse) da Raoul Walsh.
Diciamo “forse” perché il film scelto per la pre-apertura della 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia è un’opera leggendaria, quasi mitologica, qualcosa di simile al nostrano Sperduti nel buio di Nino Martoglio.
Fu Mary Pickford, straordinaria protagonista e produttrice del film, a ordinarne la distruzione totale poco tempo dopo la realizzazione. A salvarsi fu una solo una piccola parte, pressoché inutilizzabile per via della mancanza di didascalie (che, trattandosi di film muto, vuol dire la mancanza del copione vero e proprio).
Negli anni 60’ tornò alla luce una copia in nitrato, scoperta negli archivi russi e riportata poi in patria, più precisamente al MoMa di New York. Recentemente, poi, tramite un minuzioso lavoro filologico, sono state ritrovati – fra la biblioteca del congresso di Washington e gli archivi della Academy of Motion Pictures – sia gli spartiti originali che una copia delle didascalie del film, entrambi fondamentali per ricostruire, finalmente Rosita.
Siviglia è una città povera, la cui frustrazione trova sfogo in costumi libertini. Il giorno di carnevale il Re (un superlativo Holbrook Blinn) si reca in visita alla città per osservare da vicino la situazione e ristabilire il buoncostume. In realtà il sovrano è un farfallone irresponsabile, che spera solo di approfittare della trasferta per trovare nuovi divertimenti; è così che la sua attenzione cadrà su Rosita, una popolarissima cantante di strada che con i propri testi infanga la reputazione del regnante. Con il pretesto dell’arresto il Re farà portare Rosita al suo cospetto per iniziare un ridicolo corteggiamento, ma nei suoi maldestri tentativi machiavellici di utilizzare Don Diego – interesse amoroso di Rosita – per piegare la volontà della volitiva cantante, finirà per essere raggirato dalle astute manovre della Regina.
Forte di interpretazioni indimenticabili, visto oggi Rosita risulta di una modernità sconcertante, con personaggi femminili fortissimi e un’ironia caustica verso le debolezze maschili: si potrebbe pensare a un remake Hollywoodiano con una musicista di qualche band di Seattle al posto di Rosita e un politico in vece del Re, senza quasi nessun’altra alterazione della trama. Una commedia che si tiene lontana da un umorismo slapstick ma punta tutto sulla caratterizzazione dei personaggi e sull’intreccio e che – grazie alla ritrovata partitura originale, al Festival di Venezia 2017 meravigliosamente eseguita dal vivo dalla Mitteleuropa Orchestra diretta da Gillian Anderson – è capace di strappare continue risate; risultato tutt’altro che scontato per un film muto.
Molto spesso, nel riferirsi a pellicole mute, si tende ad abusare della parola “capolavoro”, ma Rosita è certamente un film straordinario. Oltre alla qualità intrinseca, la pellicola di Lubitsch merita di esser riscoperta anche per altre due ragioni: è il primo film americano del regista – il suo battesimo hollywoodiano – e la sua vicenda filologica lo rende quasi un ‘film “maledetto’, di cui spesso si parla per sentito dire e che finalmente ha avuto una rinascita con la prima mondiale Veneziana.
Lubitsch arrivò negli Stati Uniti con l’intento di adattare per il grande schermo le opere teatrali della cosiddetta alta cultura europea, su tutte il Faust, per il quale offre a Mary Pickford la parte di Margherita, la protagonista femminile. Ben presto però si vide costretto a scendere a compromessi e a trasporre per il grande schermo un’opera comica di fine ‘800 come il Don César de Bazan di Jules Massenet, lavorando con una diva capricciosa come la Pickford e con George Walsh, modesto attore e fratello del ben più famoso Raoul che alcuni fonti accreditano anche come co-regista. Rosita si presenta allora come un grande sforzo produttivo, girato forse da Lubitsch, forse da Walsh o forse da entrambi; scritto da estranei e non dal regista tedesco, all’epoca anche sceneggiatore delle sue opere, con protagonista una grande star, la quale, peraltro, aveva contribuito a livello con la sua casa di produzione. Un’opera più leggera rispetto ad altri lavori di Lubitsch ma non per questo poco importante: un “compromesso” che anticipa di decenni l’industria Hollywoodiana, il film commerciale che permette ai registi di dirigere con libertà artistica e finanziaria l’opera successiva. Basti pensare che da lì in poi al regista tedesco sarà concesso di realizzare film come Lo Zar folle, oggi purtroppo perduto, costato circa 1.000.000 di dollari alla Paramount Pictures nel 1928. Dunque, probabilmente, senza Rosita non ci sarebbe stato Il cielo può attendere e Don Ameche non si sarebbe mai incontrato con Ernst Lubitsch…
Venezia 74 – Rosita: la straordinaria commedia muta di Lubitsch (recensione)
Venezia 74 parte con una pre-apertura memorabile: la versione restaurata di una commedia del 1923, sonorizzata dal vivo dalla Mitteleuropa Orchestra.