Osteggiato dai fan dell’animazione giapponese di tutto il mondo ben prima del suo rilascio, Death Note, il live-action del celebre manga/anime di Adam Wingard (V/H/S, The Guest) con Nat Wolff, Margaret Qualley, Keith Stanfield, Willem Dafoe e Shea Whigham, è senza dubbio uno dei prodotti più discussi e controversi che sia mai stato concepito dalla piattaforma streaming Netflix.
Le produzioni americane non godono di una buona fama per quanto riguarda gli adattamenti degli anime e sebbene molti registi, negli anni, abbiano provato in tutti i modi a tirar fuori delle pellicole accettabili, nessuno è mai stato in grado di rendere giustizia alle opere originali. Attorno a queste operazioni, inoltre, influisce il parere del mondo Otaku (ovvero i grandi appassionati della cultura pop giapponese), in grado di condizionare l’opinione del pubblico. Nonostante le aspre critiche ricevute e a dispetto di qualche evidente problema, però, il film targato Netflix è a nostro parere un prodotto con una buona qualità d’insieme, che merita di non essere sottovalutato o ignorato.
Death Note è la storia di un giovane e talentuoso studente di nome Light che entra in possesso di un quaderno maledetto in grado di uccidere le persone il cui nome viene scritto sulle sue pagine. Il quaderno, chiamato appunto Death Note, è la creazione di un demone di nome Ryuk che prova piacere nell’interferire nella vita degli uomini. Il giovane Light, disgustato dall’ingiustizia che lo circonda, cede alle tentazioni dello Shinigami (dio della morte nella cultura giapponese) e decide di sfruttare il quaderno per diventare giudice, giuria e boia del mondo intero, per crearne uno migliore ed autoproclamarsi suo nuovo Dio. Nel tentativo di catturare il giovane ragazzo assetato di potere, si riuniranno alcuni membri importanti della polizia internazionale, tra cui suo padre ed il leggendario detective L.
Fin dai primi minuti, appare evidente quanto il live-action si distanzi dall’originale sotto molti punti di vista: oltre alla diversa ambientazione e al diverso contesto sociale, Wingard, assieme ai tre sceneggiatori del film, sceglie un approccio più realistico ed umano, nonostante l’utilizzo di alcuni stereotipi tipici dei teen-movie e di molti polizieschi. I protagonisti della storia sono radicalmente differenti da quelli del manga: Light ed L non sono più dei ‘geni insensibili’ ma personaggi con le loro fragilità e dalla costruzione psicologica interessante. Nell’opera originale, la loro freddezza era giustificata da una trama basata prevalentemente sugli scontri psicologici e sui colpi di scena e, nonostante la qualità del materiale di partenza, i comprimari soffrivano di una certa assenza di caratterizzazione e spinte emotive. Tale caratteristica, che non rappresentava un problema sulla pagina stampata, avrebbe invece creato seri problemi di script una volta trasposta su pellicola. La ricerca di giustizia dei due, pur secondo diversi paradigmi, era infatti il vero motore narrativo, ma la complessità di questo aspetto del manga/anime era troppo vasta per ricevere il giusto spazio in un passaggio alla celluloide. Altro personaggio profondamente diverso è quello di Mia (Misa nel manga), che nel live-action non è la bambola fedele e sacrificabile agli scopi del protagonista ma una ragazza dal forte carattere in grado di contrastare Light stesso, creando una contraddizione interna riguardo al suo operato che, in questa versione, funziona (sebbene lo script non lo rappresenti in maniera perfetta).
Il punto debole di questi drastici cambiamenti nelle psicologie dei personaggi è che la loro resa su schermo è minata da interpretazioni a tratti scadenti e risibili, soprattutto da parte di Nat Wolff nei panni di Light: la sua prova è dimenticabile e le sue urla effeminate quasi comiche. Considerando gli altri attori, se Keith Stanfield fa un ottimo lavoro nel riprodurre le classiche stravaganze e la nuova emotività di L (a dispetto delle critiche a sfondo razziale sulla sua scelta di casting) e Shea Whigham è bravissimo nel ruolo di James Turner, Margaret Qualley non convince del tutto nei panni di Mia.
Per quanto gli attori che vediamo sullo schermo facciano del loro meglio, a rubare letteralmente la scena è la rappresentazione del demone Ryuk da parte di un mostruoso Willem Dafoe: se molti spettatori non hanno apprezzato questa versione dello Shinigami più attiva nell’evoluzione di Light rispetto all’originale, il fascino della performance vocale di Dafoe è assolutamente innegabile. Visivamente terrificante, nascosto nell’ombra con accattivanti giochi di luce e inquadrato perfettamente in ogni scena, questo Ryuk è la componente più riuscita del film, a dimostrazione dell’abilità di Adam Wingard nel gestire scene ad alta tensione e dalle inquietanti tinte horror. La sua ottima regia permette una narrazione scorrevole e funzionale, aiutata da scenografie ed effetti speciali più che convincenti, una fotografia ottima nei contrasti fra colori accesi e ambientazioni macabre. Fatta eccezione per i primi minuti dell’opera (visivamente poco ispirati e piatti), il regista statunitense ci regala delle riprese bellissime e squisitamente perturbanti.
In conclusione, Death Note è una buona pellicola, che non merita le feroci critiche ricevute per il radicale distacco dall’opera originale: nonostante i cliché e alcuni sviluppi poco plausibili, rimane un’interessante operazione di trasposizione di un fumetto orientale a cui bisogna concedere una chance.
Death Note: Netflix e il live-action della discordia (recensione)
Il film Netflix diretto da Wingard e ispirato al celebre manga si discosta dall'originale con scelte coraggiose, ma la performance del protagonista non va.