Silvia Luzi e Luca Bellino sono autori, registi e produttori de Il Cratere in concorso alla 32. Settimana della Critica in concomitanza con la 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Li abbiamo incontrati a Roma, a poche ore dalla partenza per il Lido.
Silvia e Luca, come d’abitudine in questa rubrica chiediamo agli sceneggiatori di presentare il proprio film con un breve pitch.
Due personaggi, un padre e una figlia; due ribellioni che si combattono in uno spazio ostile. Una storia semplice e crudele.
A che tipo di “vuoto” rimanda il cratere del titolo?
Tanti, ma tutti da colmare. Non c’è mai rassegnazione.
Avete realizzato Il Cratere da soli fondando una vostra casa di produzione, la Tfilm. Si è trattato di una scelta strategica o di una necessità ineluttabile?
Abbiamo fondato Tfilm in un momento in cui sentivamo il bisogno di essere totalmente indipendenti e svincolati dal meccanismo che, imponendo la ricerca di un produttore, richiede l’aderenza al mercato. È stata una scommessa e insieme un esperimento. Il Cratere ha avuto un metodo di lavorazione molto particolare, impossibile da mettere in atto con i vincoli di qualunque produzione classica.
A che punto del processo produttivo è entrata Rai Cinema e come ha cambiato le sorti del film?
Abbiamo sviluppato il film grazie al fondo MiBact. Rai Cinema è entrata subito ed è stato un supporto fondamentale, non solo dal punto di vista economico. Non sappiamo se sia così per ogni autore e per ogni produzione, ma per noi avere il sostegno di Rai Cinema ha garantito una vicinanza artistica e una totale libertà di tempi e modalità di lavoro.
In passato avete prodotto e diretto numerosi documentari che sono stati apprezzati in vari festival in tutto il mondo. Quanto del vostro “sguardo sul reale” è rimasto nella realizzazione de Il Cratere?
Veniamo dal documentario e crediamo che questo sia un valore aggiunto, un’esperienza che ti porta ad approcciare la narrazione in modo totalmente diverso. Ne Il Cratere abbiamo voluto fin dall’inizio che ogni elemento visivo del film fosse vero. Lo sono gli abiti, i luoghi, gli oggetti, lo sono le vite degli altri personaggi che incrociano i protagonisti Sharon e Rosario. La decisione – radicata già durante la fase di scrittura – era però quella di ricondurre tutto a una struttura stilistica e narrativa di puro cinema di finzione.
L’esperimento era quello di usare la realtà, se vogliamo il documentario, per arricchire la forma film, la sua essenza. Non abbiamo mai voluto mascherare l’impronta documentaria, ma abbiamo voluto mostrarla nel suo lento scioglimento, una progressiva rarefazione che doveva andare di pari passo con la storia.
Rosario e Sharon sono padre e figlia anche nella vita. È nata prima l’idea del film oppure l’incontro con loro due?
Siamo partiti da una storia di pura fantasia, nata dalla profonda conoscenza del luogo che volevamo raccontare. Abbiamo immaginato uno spazio simbolico, che noi chiamiamo ‘cratere’, un amalgama di paesi ininterrotti che si estende attorno a Napoli lambendo i piedi del Vesuvio. In sceneggiatura era già presente il ruolo della famiglia come chiave del racconto, spazio nello spazio, cratere nel cratere.
Per il dispositivo che volevamo creare avevamo bisogno di una vera famiglia, che restituisse la disfunzionalità e i legami che un nucleo familiare porta con sé. La storia scritta inoltre aveva un ulteriore elemento, l’adolescenza come simbolo di conflitto e ribellione pura. Abbiamo dunque cercato padri e figli adolescenti, volti capaci di incarnare sia quell’idea di rivalsa e di resistenza verso il mondo, sia un’alleanza che è naturale perché scorre nelle vene, ma che porta in sé un’altrettanta naturale tensione tra le parti.
Dopo mesi di provini pensavamo di aver chiuso il cast ed eravamo pronti per le riprese. Poi abbiamo incontrato un camion colmo di peluches. Ci siamo trovati davanti Rosario e la sua ambizione pura e incosciente. Sharon al suo fianco è comparsa indolente con le sue efelidi, i suoi sorrisi e una pubertà che stava esplodendo di seni e inconsapevolezza. Non abbiamo avuto dubbi. Ed è nato il film.
E da quel momento in poi come avete organizzato il lavoro?
Abbiamo iniziato un lungo percorso parallelo di preparazione degli attori alla recitazione e di riscrittura dello script. Per prima cosa abbiamo inglobato nella nostra struttura gli elementi veri della vita dei protagonisti, il lavoro e il camion dei pupazzi, la famiglia numerosa, la casa con un cortile. Poi abbiamo iniziato con Rosario Caroccia un confronto sull’evoluzione dei personaggi ed è stato lui a suggerirci svolte narrative e battute che gli risultavano naturali. Infine abbiamo riscritto la sceneggiatura da soli e abbiamo iniziato a girare in sequenza. Durante le riprese quindi gli attori scoprivano nel dettaglio le scene da girare una per volta, e ovviamente anche in questa fase abbiamo continuato a modificare la sceneggiatura.
I personaggi che inseguono ciecamente una propria ossessione sono sempre appassionanti. L’aspetto drammatico ne Il Cratere è che per soddisfare il desiderio di rivalsa sul mondo ostile, Rosario non esita a esibire e a sfruttare sua figlia Sharon. Quanto di questa dinamica relazionale era già presente nel rapporto tra gli attori protagonisti?
Poco, essenzialmente solo la voglia di abbattere i confini del cratere da parte di Rosario e la passione per la musica.
Il rapporto tra Rosario e Sharon mi ha fatto pensare a tanti padri che spingono i figli giovanissimi sui campi di calcio, sognando per loro carriere molto remunerative ma negandogli nel contempo la dimensione di gioco che lo sport dovrebbe avere a quell’età. In questo senso, Il Cratere può essere uno specchio dei tempi?
È esattamente lo spunto da cui siamo partiti. Abbiamo deciso di ambientarlo nel ‘cratere’ solo perché è una zona che ha confini definiti ma è qualcosa che avviene in ogni parte del mondo, con la danza, lo sport, la musica classica. Se sia poi uno specchio dei tempi non sapremmo dirlo.
Ampliando il discorso mi sembra che l’idea del riscatto sociale attraverso l’ingresso del dorato mondo dello spettacolo sia un mito sempre più difficile da sfatare. Per quale ragione secondo voi?
Sembra strano ma il mondo dello spettacolo nell’hinterland napoletano è sinonimo di riconoscimento sociale, non di successo. Ed è questo che rende il mondo della musica neomelodica così interessante. Non si tratta di lustrini e conti in banca, ma di esistenza.
La storia rimanda ad atmosfere e situazioni di un film che incontrato un grande successo di pubblico nella scorsa stagione cinematografica, Indivisibili di Edoardo De Angelis. Ci sono dei punti di contatto? E sotto quali aspetti avete percorso una strada differente?
Leggendo le sinossi si è portati inevitabilmente a mettere i due film in correlazione: la musica, la Campania, un padre, una figlia. Poi guardandoli invece è altrettanto inevitabile non trovare somiglianze. Il Cratere è un film intimo girato con un’intenzione e uno stile totalmente diversi. La musica all’interno del film è solo lo spunto narrativo e non è il fulcro del racconto. Ma speriamo che questo parallelismo porti almeno fortuna.
Più in generale, cos’è che vi attrae in una storia? Qual è il trampolino di lancio della vostra creatività?
È come una piramide di eventi e casualità, incontri, visioni, noia. In questo casso siamo partiti da un’idea semplicissima ambientata però in uno spazio preciso, e solo vivendo le atmosfere di quel luogo l’intreccio si è sviluppato fino a inglobare poi elementi inimmaginabili se si rimane seduti a una scrivania. Ma ogni passaggio narrativo, ogni svolta, ha bisogno di un nuovo impulso.
In quanto tempo siete arrivati alla stesura definitiva della sceneggiatura de Il Cratere?
Più di un anno.
E in sala di montaggio com’è andata?
Avendo lavorato tantissimo sulla sceneggiatura è stato semplicissimo. In più durante le riprese, approfittando dei tempi lunghi di lavorazione, abbiamo premontato le sequenze su cui avevamo dei dubbi e alcune abbiamo deciso di rigirarle fino a quando non eravamo completamente soddisfatti. Una volta in sala il film si è disteso sotto i nostri occhi, e sono state davvero poche le modifiche strutturali.
Come avete reagito alla notizia della selezione in Concorso alla Settimana della Critica?
Ci sembrava il posto giusto dove mostrare il film.
Sin dalla fondazione, Writers Guild Italia si batte perché venga riconosciuta agli sceneggiatori – iscritti e non – l’importanza del proprio ruolo all’interno della filiera produttiva dell’audiovisivo. Fino a poco tempo fa, nei cataloghi dei maggiori festival – compreso ancora oggi Venezia – gli sceneggiatori non venivano nemmeno menzionati. Da questo punto di vista qual è stata la vostra esperienza in passato?
Venendo dal documentario la nostra esperienza è ancora peggiore. Nel documentario lo sceneggiatore scompare mentre è un ruolo essenziale, spesso più del regista.
Secondo voi cosa manca alle storie che vengono scritte in Italia?
Manca un investimento deciso sullo sviluppo, che non è per noi solo scrittura ma soprattutto tempo retribuito. Anche il nostro piccolo film non sarebbe stato possibile senza i fondi di sviluppo del MiBact e di Pulse Film e BritDoc. Scrivere una sceneggiatura in due mesi impone necessariamente un abbassamento delle potenzialità perché limita le prime stesure, quelle più ardite, costringendo subito a restringere l’immaginazione nel campo del possibile.
(intervista a cura di Paolo Guerrieri)