Bielorussia, 1943. Giocando tra sabbia, corpi mutilati e cataste di cianfrusaglie abbandonate, Fliora recupera un fucile che gli permette di abbandonare il villaggio natale e unirsi alla resistenza partigiana. È l’inizio di un viaggio rovinoso dentro l’orrore bellico, un percorso adombrante che attende al traguardo la fine della guerra e della cruda adolescenza del protagonista.
Restaurato a 32 anni dall’uscita, Va’ e vedi scuote Venezia con il suo andamento cadenzato, stordente, tanto avvolgente nelle atmosfere quanto alienante nei contenuti. Elem Klimov realizza una pellicola che ha la capacità di creare una dosata commistione di narrazione quotidiana in periodo bellico – ai limiti del documentario pedagogico – con la toccante drammatizzazione di un’adolescenza annebbiante, unita infine a certe suggestioni visive puramente cinematografiche. È il caso dell’ossessiva alternanza di primi piani e dinamici long takes, riprese che si intrufolano in un ambiente ostico in natura e reso assai più periglioso dalla presenza del nemico tedesco. Nulla è lasciato al caso, l’universo narrativo costruito da Klimov restituisce dunque allo spettatore tutte le sue coordinate geografiche: la landa brulla, la palude, il villaggio, il bosco. È proprio quest’ultimo a mostrarsi come idealizzazione favolistica per farsi fortino inespugnabile, zona sicura e seducente in cui i partigiani trovano sollievo nei canti della tradizione, nel pasto frugale e nelle foto di gruppo, ambiente che fa da opposizione al villaggio, teatro di stragi, fame e disperazione.
Ad aggiungersi al naturale panorama nebbioso, Klimov ha buon gioco nell’innestare elementi che turbino tanto lo spettatore quanto lo stesso Fliora, entrato per propria volontà in un mondo di orrori dal quale non sembra riprendersi. Assistiamo allora a sequenze forzatamente teatrali (l’attraversamento della palude) e a immagini drammaticamente simboliche (le bambole delle sorelle, cadute a terra e rovinate dal rastrellamento tedesco). Merita poi un appunto a sé stante, sempre nell’ottica dello stordimento, la cura del sonoro di tutti i 145 minuti di pellicola: che sia diegetica o extradiegetica, la musica accompagna quasi ogni sequenza del film, riuscendo quindi ad affiancare lo spettatore nell’esperienza straniante di Fliora, per giunta danneggiato nell’udito dall’esplosione di una bomba. Pochi dialoghi, tanti rumori e ancor più repulsione per ciò che il protagonista osserva. Non sarà un caso allora se il volto dapprima angelico del ragazzo si tramuti con l’avanzare della guerra in una faccia sgranata, scavata e a tratti inespressiva. Ma il clima angoscioso riesce a insinuarsi in ogni fotogramma anche a seguito della scelta di non mostrare, almeno per tutta la prima parte del lungometraggio, il nemico nazista: sempre citato, invocato o osservato negli effetti, ma mai intravisto nella prima ora. È quindi l’attesa della visione dell’avversario – caricata per quasi metà pellicola – a fare dell’esercito antagonista un mostro nell’ombra, una minaccia più pericolosa poiché invisibile, non fosse per quell’aereo che dall’alto osserva e intimorisce il protagonista sin dai titoli di testa.
Ne risulta allora un’opera dal forte impatto, solida e certamente arricchita da questo restauro che ne rivitalizza gran parte delle componenti audiovisive maggiormente coinvolte nel meccanismo di turbamento che lo caratterizza.