Alla morte della Regina Vittoria nel 1901, suo figlio e successore Edoardo VII, distrusse ogni traccia di quello che era stato il fedele servitore della regina negli ultimi anni della sua vita, bruciando ogni lettera, foto o dipinto, che potessero testimoniare il profondo affetto che legava la madre al cortigiano Abdul Karim, un musulmano proveniente dall’India, antica colonia inglese. Questa rimozione perdurò fino a quando, quasi per caso, la giornalista Shrabani Basu trovò un ritratto della Regina Vittoria affiancata a Karim: andando a fondo nella questione venne in possesso di lettere e testimonianze che erano la prova di un profondo legame di amicizia e rispetto che legava questi due improbabili amici. Dal libro che ne conseguì, Stephen Frears colse l’occasione per occuparsi di nuovo della famiglia reale inglese dopo il celebrato The Queen con protagonista Helen Mirren nei panni della Regina Elisabetta nel fervente periodo appena successivo la morte di Lady Diana.
In Vittoria e Abdul, presentato in anteprima alla 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, a vestire i panni della Regina c’è Judi Dench, attrice niente affatto nuova nell’interpretazione di un monarca inglese e che aveva già lavorato con Frears in Philomena del 2013.
La sua Vittoria è ormai anziana, austera, stanca e annoiata della vita di corte e degli obblighi, anche quelli di semplice costume, che questa comporta. Durante un pranzo però, i suoi occhi piccoli e astuti, incrociano per caso quelli di Abdul (Ali Fazal), un impiegato musulmano, scelto grazie al suo bell’aspetto, per portare alla Regina un dono da parte delle colonie indiane in occasione del Giubileo d’Oro. Nasce in quel momento una ‘scintilla’ che si tramuterà in una improbabile quanto sincera amicizia tra i due, profonda al punto di infastidire e preoccupare l’intera corte che minaccia addirittura le dimissioni se la Regina Vittoria non smetterà di favorire Karim.
Victoria e Abdul è una storia vera ma con tante licenze poetiche. Dal libro di Basu, Frears riprende i personaggi e le dinamiche, ma enfatizza all’estremo i caratteri dei protagonisti per renderli più appetibili al pubblico. Un racconto con toni quasi ‘fiabeschi’, dato che la vicenda di Vittoria infatti è quasi paragonabile a quella di una principessa che vive in un castello che, più che a una dimora reale, somiglia in fin dei conti a una prigione. Abdul sarà l’esotico salvatore che le insegnerà a viaggiare attraverso i tanti popoli che, volenti o nolenti, fanno parte del grande impero britannico, e riuscirà attraverso l’arte del racconto, a farle vivere esperienze che mai avrebbe potuto vivere in un età tanto avanzata.
Ma quelle di Frears, ormai lo sappiamo, sono storie irriverenti, e i suoi protagonisti sono dei veri e propri outsider. Il regista britannico non si trattiene affatto dal mostrare una Regina in tutti i suoi vizi e capricci, che invece di essere rispettata, è semmai quasi il buffone di una corte adulatrice e attaccata solo al proprio tornaconto. Abdul è semplicemente lo straniero e porta inevitabilmente con sé la paura primordiale verso lo sconosciuto che appartiene a ogni paese e a ogni epoca. Ecco che allora dietro alla favola, dietro all’ironia tipica del cinema di Frears, alle risate e alle grandi interpretazioni – quella di Judi Dench su tutte – Vittoria e Abdul si rivela essere un film moderno quanto estremamente politico. Le preoccupazioni che insorgono nel microcosmo della corte inglese, sono i grandi problemi che affliggono la nostra epoca: il razzismo, l’indifferenza, l’esigenza di mostrare un’identità di facciata. La storia di un’improbabile amicizia, tema caro al cinema e che ha permesso di produrre numerosi film, assicura l’interesse e il divertimento del pubblico in sala, ma è anche il veicolo per portare alla luce questioni di natura sociale che hanno l’impellente bisogno di essere analizzate.
Mentre nella seconda parte prevale a volte la tendenza al racconto di esattezza storiografica, che toglie un po’ di magia a uno script tutto inteso a deridere i benpensanti, Stephen Frears si fa invece evidente per tutta la durata del film, nella messa in scena, nella regia elegante e nella cura minuziosa dei dettagli scenografici, oltre che nella direzione dei suoi attori che giocano con le loro personali corde di interpretazione, alternando momenti divertenti a episodi di grande recitazione.
E se l’irriverenza dei personaggi è uno dei grandi segni distintivi del cinema di Frears, assume qui il ruolo di mediatrice per la tolleranza. E quello della disobbedienza come atto di amore e libertà è un messaggio poco celato che disintegra la sensazione di un film bonario e politicamente corretto che tratta semplicemente della convivenza di due civiltà. Abdul infatti, nonostante l’opposizione della corte e del futuro erede al trono, è stato della Regina Vittoria non solo un amico, ma anche il Monshi, il gran maestro. E il fatto che la tolleranza passi per la cultura, non è mai un insegnamento banale.